erché I love la Biennale di Venezia
E se il fascino irresistibile della Biennale di Venezia fosse dovuto al suo carattere anarchico, ibrido e complesso? E di conseguenza alla sua mancanza di governabilità? Una riflessione a margine. Anzi, al centro stesso della kermesse.
Scritto da Redazione | sabato, 4 giugno 2011 · 2 commenti
L'installazione di Monica Bonvicini che chiude la mostra internazionale all'Arsenale - photo Valentina Grandini
La Biennale di Venezia è la mostra che i critici amano maggiormente attaccare, e a ragione: per ogni gusto e attitudine c’è sempre qualcosa da obiettare. Secondo un rito che si ripete ogni due anni, almeno tre sono le lagnanze ricorrenti: ipotizzare una lista alternativa di artisti che avrebbero dovuto essere invitati; stare a sottilizzare sul concept della mostra; concentrarsi sui difetti di una singola opera, che così fa da parafulmine per l’intera Biennale.
Giustificate o meno che possano risultare, queste obiezioni fatalmente falliscono ogni volta, perché mancano il bersaglio vero: catturare l’esperienza della Biennale che viene vissuta. La Biennale di Venezia è enorme, caotica, informe e decentrata, per cui riesce a eludere anche il critico più attrezzato e prevenuto, sfidando ogni lettura generale a priori. Si può sempre solo commentarne una parte, mai il tutto. D’altro canto, proprio per la sua vastità, e per il fatto di essere composta di così tante parti semi-indipendenti, se non addirittura di elementi totalmente disparati, commentarne una sezione risulta comunque patetico e inadeguato rispetto alla sua soverchiante complessità.
Marinella Senatore, Estman Radio Drama, 2011, installazione, lettori CD, cuffie, legno suono, tecniche miste, photo by Valentina Grandini
La Biennale non è governata da un solo modus operandi rispetto alla decisione su quali artisti includere, quale approccio adottare, quale strategia assumere. Ogni Padiglione nazionale ha il proprio metodo per scegliere il suo curatore, e interpreta la sua mission secondo i propri parametri, al punto che si è anche deciso di inserire artisti di altre nazioni, e persino di invitare non-artisti. Il Direttore/Curatore controlla la mostra ai Giardini e all’Arsenale, dove effettivamente può muoversi a briglie sciolte. In alcune edizioni, la grande esposizione internazionale è stata scissa in due diverse mostre, curate da due diversi curatori. La Biennale non soltanto offre un guazzabuglio di opere diverse, ma è anche supportata da una miriade di modalità curatoriali e decisionali.
La Biennale che conosciamo è ancora più vasta e complessa: accanto alla Biennale in sé ci sono innumerevoli progetti che la usano come piattaforma, e di cui essa rende possibile la stessa esistenza. Tra questi, ci sono i progetti patrocinati dalla Biennale, come Robot Radio di ARTonAIR.org in questa edizione, con cui collaboro; le mostre indipendenti organizzate presso diversi musei e fondazioni (il museo Fortuny, Prada, Querini Stampalia ecc.); eventi gangster e azioni antagoniste o di critica istituzionale organizzati al di fuori dei canali ufficiali, come lo “sleep in” concepito quest’anno da ConiglioViola. Se consideriamo l’intera costellazione di progetti che orbita intorno alla Biennale, sia la forma che i contenuti degli elementi che compongono il quadro generale, per come lo viviamo, sembrano non avere limiti.
Sigmar Polke, veduta dell'installazione, photo by Valentina Grandini
La sua spalmata, ibrida, disorganizzata, “aperta” natura è ciò che rende la Biennale entusiasmante. Paradossalmente, questo suo pregio ha un rapporto tenue con i contenuti prettamente artistici in mostra, ma non per questo l’arte esposta ne soffre. Da un lato, i contributi artistici validi brillano, e nell’arco dei decenni ce ne sono stati molti memorabili; dall’altro, però, la Biennale risulta folgorante a prescindere dai suoi picchi. Si potrà dire che la Biennale è incostante sia nella qualità che secondo qualsiasi altro parametro di lettura, eppure l’esperienza che se ne fa è sempre intensa e significativa. Infatti, il suo imprevedibile non-formato è di gran lunga più pertinente, convincente e adatto nel contesto di oggi, rispetto alla grande mostra gerarchica, pilotata dall’alto e perfettamente coerente, confezionata seguendo il modello stanco e consumato del curatore-guida eminente, che in definitiva espone più se stesso che ciò che presenta.
Omer Fast, Five Thousand Feet is the Best, still da video, photo by Valentina Grandini
L’anarchia della Biennale di Venezia è ciò che non soltanto la rende significante, ma che ne garantisce la sopravvivenza. In Italia, dove sfortunatamente la classe politica tratta la cultura come un bottino da gestire con logiche clientelari, senza considerarne i meriti e le potenzialità di visione, è proprio questa sua polivalenza e frammentarietà, a salvare la Biennale da una morte sicura per accaparramento politico. I tentativi di lottizzarla e di trasformarla in una scacchiera per manovre intestine di potere continuano tuttora, ma per fortuna si tratta di un terreno troppo caotico, quindi in definitiva inafferrabile. La Biennale è l’Afghanistan degli uomini di potere ed è la sua indomabile decentrata complessità a renderla ogni volta un grande evento e una grande esperienza.
Daniela Salvioni