venerdì 10 settembre 2010

browsernik - Psicobiologia

Le scienze cognitive sono spesso caratterizzate da confini sfumati e campi disciplinari terminologicamente poco facili da definire. Psicologia, neuropsichiatria, neurologia, neurobiologia, hanno sempre rappresentato terreni comuni di prospettive differenti, dove a parte i limiti giuridici del clinico e del non-clinico e quelli dei taciti accordi accademici nella divisione del lavoro tra medici, biologi, e psicologi, i contenuti e i rispettivi mandati sfumano in genere soprattutto al momento di interagire con la sfera sociale e divulgativa. Alberto Oliverio rappresenta in questo senso in Italia il tentativo di fornire un’integrazione operativa nella ricerca neuroscientifica, un tentativo chiamato Psicobiologia.

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browsernik - Psicobiologia

Le scienze cognitive sono spesso caratterizzate da confini sfumati e campi disciplinari terminologicamente poco facili da definire. Psicologia, neuropsichiatria, neurologia, neurobiologia, hanno sempre rappresentato terreni comuni di prospettive differenti, dove a parte i limiti giuridici del clinico e del non-clinico e quelli dei taciti accordi accademici nella divisione del lavoro tra medici, biologi, e psicologi, i contenuti e i rispettivi mandati sfumano in genere soprattutto al momento di interagire con la sfera sociale e divulgativa. Alberto Oliverio rappresenta in questo senso in Italia il tentativo di fornire un’integrazione operativa nella ricerca neuroscientifica, un tentativo chiamato Psicobiologia.

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Studiare poco e bene « Nicocara's Blog

Studia, stai seduto lì e studia. Se non ti fossi distratto così tante volte a quest’ora avresti già finito. Prima finisci i compiti, poi puoi accendere la PlayStation. E finisci matematica, prima di studiare storia. Dalle elementari in poi ci hanno insegnato che il modo migliore per imparare le cose è quello di stare alla scrivania, non concedersi distrazioni e andare avanti a tappe rigorose e forzate su ciascun impegno: eppure secondo i ricercatori lo studio matto e disperatissimo serve a poco, come spiegano sul New York Times. Negli ultimi anni, gli scienziati cognitivi hanno dimostrato che alcune semplici tecniche possono migliorare ciò che conta di più: quanto uno studente riesce ad apprendere con lo studio. Queste scoperte possono aiutare tutti, da un bambino di quarta elementare impegnato nel calcolare delle lunghe divisioni a un anziano in pensione intento a imparare una nuova lingua. Ma contraddicono buona parte del senso comune sulle buone abitudini di studio, e non hanno ancora fatto presa. Per esempio, invece di studiare in un unico luogo, alternare le stanze dove si studia migliora la memorizzazione. E così anche lo studio di concetti e competenze correlati, invece di concentrarsi su una sola cosa. Molti di questi consigli sono noti ormai da tempo, ricorda Robert A. Bjork della University of California (Los Angeles), eppure le scuole non li adottano e gli stessi studenti nel corso della loro carriera scolastica raramente mettono in pratica nuove tecniche di studio, nonostante quelle tradizionali si rivelino spesso fallimentari. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science ha poi dimostrato che non ci sono prove scientifiche valide per dire che ognuno di noi ha un differente modo di apprendere le cose. La suddivisione tra chi impara di più guardando e chi ascoltando, per esempio, sembra essere priva di fondamenti scientifici validi o per lo meno facilmente riscontrabili. Già nel 1978 un gruppo di ricercatori condusse alcuni esperimenti per comprendere quali fossero le condizioni migliori per favorire lo studio e l’apprendimento. A due gruppi di studenti furono affidate 40 parole da memorizzare: ogni studente del primo gruppo doveva impararle a memoria in una stanza isolata e senza finestre, mentre i componenti del secondo gruppo dovevano memorizzare i vocaboli in una stanza con vista su un giardino. Alla fine gli studenti del gruppo due memorizzarono in media molte più parole dei loro compagni, indotti a studiare in un ambiente con molte meno distrazioni. Il cervello crea delle sottili associazioni mentali tra ciò che si sta studiando e le sensazioni che proviamo in quel momento, sostengono gli autori della ricerca, a prescindere dal fatto che tali percezioni siano consce o meno. Il cervello colora i termini del Trattato di Versailles con la luce soffusa della propria stanza, per esempio. […] «Pensiamo che, quando il contesto esterno è vario, le informazioni sono più ricche di dettagli, e questo riduce la possibilità di dimenticare» dice Bjork, che curò anche l’esperimento delle due stanze. Il luogo in cui si studia è importante, ma non è l’unico elemento da tenere in considerazione. Secondo i ricercatori, occorre variare con frequenza le materie che si stanno studiando: aiuta a combattere le noia e stimola maggiormente il cervello. Dough Rohrer e Kelli Taylor della University of South Florida hanno proposto a degli studenti di quarta elementare un problema per calcolare le dimensioni di un prisma utilizzando una formula matematica. A un gruppo sono stati sottoposti problemi simili tra loro per far pratica con la formula, mentre un altro gruppo ha dovuto risolvere problemi “misti” che non seguivano sempre lo stesso schema. Il giorno seguente i ricercatori hanno proposto un test uguale per tutti gli studenti e si sono resi conto che quelli del secondo gruppo avevano imparato e compreso meglio la regola matematica, 77% contro il 38% dell’altro gruppo. Un altro team di ricerca ha condotto alcuni test sulla capacità degli studenti del college e degli adulti prossimi alla pensione di riconoscere gli stili delle opere d’arte. Come scrivono i ricercatori nello studio, pubblicato sulla rivista scientifica Psychology and Aging, i partecipanti al test hanno avuto più facilità nel riconoscere gli stili pittorici di dodici artisti sconosciuti dopo aver visionato un insieme di quadri con stili diversi tra loro rispetto a chi aveva visionato dodici quadri di fila per ogni artista. La scoperta dimostra che anche nei lavori creativi dedicarsi con costanza a un unico stile non è sempre il modo più indicato per padroneggiarlo al meglio. Oltre all’ambiente in cui si studia e all’alternanza degli argomenti da apprendere, non bisogna trascurare i tempi. Molte ricerche hanno dimostrato che brevi sessioni separate di studio aiutano a imparare meglio e a prolungare il ricordo di quanto si è appreso. Non è ancora chiaro per quale motivo il nostro cervello riesca a imparare meglio a intervalli. Riprendendo lo studio dopo qualche ora o giorno, obblighiamo la nostra mente a riprodurre il ricordo di quanto abbiamo già appreso, creando così un rinforzo del ricordo stesso prima di aggiungere nuove informazioni. In un certo senso, dimenticare diventa il miglior alleato di apprendere perché nel ripasso successivo rinforziamo il ricordo di qualcosa che pensavamo di aver completamente rimosso. In uno dei loro esperimenti, Henry L. Roediger III e Jeffrey Karpicke della Washington University hanno affidato a un gruppo di studenti del college alcuni passaggi di un testo scientifico da studiare in un certo periodo di tempo. Quando i ragazzi hanno studiato lo stesso materiale due volte, in sessioni consecutive, hanno dato ottimi risultati in un test sottoposto loro subito dopo lo studio, ma poco dopo hanno iniziato a dimenticare quello che avevano appreso. Studiando il materiale una sola volta e conducendo un test preliminare al posto della seconda sessione di studio, i ragazzi hanno dimostrato di aver assimilato molto meglio le informazioni dando ottimi risultati in un paio di test condotti a due giorni e a una settimana dalle sessioni di studio. Secondo Roediger, l’esperimento dimostra l’importanza fondamentale dei test e delle verifiche per migliorare l’apprendimento. Gli esami, sostiene il ricercatore, dovrebbero essere considerati come una parte dello studio e non come un semplice strumento per verificare la preparazione degli studenti. Le conclusioni del ricercatore sono condivise da molti cognitivisti, che però ricordano che l’idea stessa di dover sostenere un test induce chi studia, ed è motivato, a intensificare il lavoro per memorizzare meglio le informazioni. Mediamente, maggiore è la consapevolezza della difficoltà di un esame, più alte sono le probabilità di studiare di più e di ricordare le nozioni apprese. Alcuni dei consigli che si possono ottenere dalle ricerche scientifiche sul migliore metodo di studio possono apparire banali e scontati, eppure in pochi mettono costantemente in atto le migliori strategie per studiare con minore fatica e ottenere lo stesso buoni risultati. Alla base di tutto deve comunque esserci una forte motivazione da parte di chi studia. Ambiente, materie da variare spesso e tempi di apprendimento possono aiutare, ma senza la volontà di imparare e ricordare qualcosa di nuovo non c’è ricerca scientifica che tenga. TAG: APPRENDIMENTO, PSICOLOGIA, RICERCA, SCIENZE COGNITIVE, SCUOLA, STUDIOVERSIONE STAMPABILECONDIVIDI:

 

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Studiare poco e bene « Nicocara's Blog

Studia, stai seduto lì e studia. Se non ti fossi distratto così tante volte a quest’ora avresti già finito. Prima finisci i compiti, poi puoi accendere la PlayStation. E finisci matematica, prima di studiare storia. Dalle elementari in poi ci hanno insegnato che il modo migliore per imparare le cose è quello di stare alla scrivania, non concedersi distrazioni e andare avanti a tappe rigorose e forzate su ciascun impegno: eppure secondo i ricercatori lo studio matto e disperatissimo serve a poco, come spiegano sul New York Times. Negli ultimi anni, gli scienziati cognitivi hanno dimostrato che alcune semplici tecniche possono migliorare ciò che conta di più: quanto uno studente riesce ad apprendere con lo studio. Queste scoperte possono aiutare tutti, da un bambino di quarta elementare impegnato nel calcolare delle lunghe divisioni a un anziano in pensione intento a imparare una nuova lingua. Ma contraddicono buona parte del senso comune sulle buone abitudini di studio, e non hanno ancora fatto presa. Per esempio, invece di studiare in un unico luogo, alternare le stanze dove si studia migliora la memorizzazione. E così anche lo studio di concetti e competenze correlati, invece di concentrarsi su una sola cosa. Molti di questi consigli sono noti ormai da tempo, ricorda Robert A. Bjork della University of California (Los Angeles), eppure le scuole non li adottano e gli stessi studenti nel corso della loro carriera scolastica raramente mettono in pratica nuove tecniche di studio, nonostante quelle tradizionali si rivelino spesso fallimentari. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science ha poi dimostrato che non ci sono prove scientifiche valide per dire che ognuno di noi ha un differente modo di apprendere le cose. La suddivisione tra chi impara di più guardando e chi ascoltando, per esempio, sembra essere priva di fondamenti scientifici validi o per lo meno facilmente riscontrabili. Già nel 1978 un gruppo di ricercatori condusse alcuni esperimenti per comprendere quali fossero le condizioni migliori per favorire lo studio e l’apprendimento. A due gruppi di studenti furono affidate 40 parole da memorizzare: ogni studente del primo gruppo doveva impararle a memoria in una stanza isolata e senza finestre, mentre i componenti del secondo gruppo dovevano memorizzare i vocaboli in una stanza con vista su un giardino. Alla fine gli studenti del gruppo due memorizzarono in media molte più parole dei loro compagni, indotti a studiare in un ambiente con molte meno distrazioni. Il cervello crea delle sottili associazioni mentali tra ciò che si sta studiando e le sensazioni che proviamo in quel momento, sostengono gli autori della ricerca, a prescindere dal fatto che tali percezioni siano consce o meno. Il cervello colora i termini del Trattato di Versailles con la luce soffusa della propria stanza, per esempio. […] «Pensiamo che, quando il contesto esterno è vario, le informazioni sono più ricche di dettagli, e questo riduce la possibilità di dimenticare» dice Bjork, che curò anche l’esperimento delle due stanze. Il luogo in cui si studia è importante, ma non è l’unico elemento da tenere in considerazione. Secondo i ricercatori, occorre variare con frequenza le materie che si stanno studiando: aiuta a combattere le noia e stimola maggiormente il cervello. Dough Rohrer e Kelli Taylor della University of South Florida hanno proposto a degli studenti di quarta elementare un problema per calcolare le dimensioni di un prisma utilizzando una formula matematica. A un gruppo sono stati sottoposti problemi simili tra loro per far pratica con la formula, mentre un altro gruppo ha dovuto risolvere problemi “misti” che non seguivano sempre lo stesso schema. Il giorno seguente i ricercatori hanno proposto un test uguale per tutti gli studenti e si sono resi conto che quelli del secondo gruppo avevano imparato e compreso meglio la regola matematica, 77% contro il 38% dell’altro gruppo. Un altro team di ricerca ha condotto alcuni test sulla capacità degli studenti del college e degli adulti prossimi alla pensione di riconoscere gli stili delle opere d’arte. Come scrivono i ricercatori nello studio, pubblicato sulla rivista scientifica Psychology and Aging, i partecipanti al test hanno avuto più facilità nel riconoscere gli stili pittorici di dodici artisti sconosciuti dopo aver visionato un insieme di quadri con stili diversi tra loro rispetto a chi aveva visionato dodici quadri di fila per ogni artista. La scoperta dimostra che anche nei lavori creativi dedicarsi con costanza a un unico stile non è sempre il modo più indicato per padroneggiarlo al meglio. Oltre all’ambiente in cui si studia e all’alternanza degli argomenti da apprendere, non bisogna trascurare i tempi. Molte ricerche hanno dimostrato che brevi sessioni separate di studio aiutano a imparare meglio e a prolungare il ricordo di quanto si è appreso. Non è ancora chiaro per quale motivo il nostro cervello riesca a imparare meglio a intervalli. Riprendendo lo studio dopo qualche ora o giorno, obblighiamo la nostra mente a riprodurre il ricordo di quanto abbiamo già appreso, creando così un rinforzo del ricordo stesso prima di aggiungere nuove informazioni. In un certo senso, dimenticare diventa il miglior alleato di apprendere perché nel ripasso successivo rinforziamo il ricordo di qualcosa che pensavamo di aver completamente rimosso. In uno dei loro esperimenti, Henry L. Roediger III e Jeffrey Karpicke della Washington University hanno affidato a un gruppo di studenti del college alcuni passaggi di un testo scientifico da studiare in un certo periodo di tempo. Quando i ragazzi hanno studiato lo stesso materiale due volte, in sessioni consecutive, hanno dato ottimi risultati in un test sottoposto loro subito dopo lo studio, ma poco dopo hanno iniziato a dimenticare quello che avevano appreso. Studiando il materiale una sola volta e conducendo un test preliminare al posto della seconda sessione di studio, i ragazzi hanno dimostrato di aver assimilato molto meglio le informazioni dando ottimi risultati in un paio di test condotti a due giorni e a una settimana dalle sessioni di studio. Secondo Roediger, l’esperimento dimostra l’importanza fondamentale dei test e delle verifiche per migliorare l’apprendimento. Gli esami, sostiene il ricercatore, dovrebbero essere considerati come una parte dello studio e non come un semplice strumento per verificare la preparazione degli studenti. Le conclusioni del ricercatore sono condivise da molti cognitivisti, che però ricordano che l’idea stessa di dover sostenere un test induce chi studia, ed è motivato, a intensificare il lavoro per memorizzare meglio le informazioni. Mediamente, maggiore è la consapevolezza della difficoltà di un esame, più alte sono le probabilità di studiare di più e di ricordare le nozioni apprese. Alcuni dei consigli che si possono ottenere dalle ricerche scientifiche sul migliore metodo di studio possono apparire banali e scontati, eppure in pochi mettono costantemente in atto le migliori strategie per studiare con minore fatica e ottenere lo stesso buoni risultati. Alla base di tutto deve comunque esserci una forte motivazione da parte di chi studia. Ambiente, materie da variare spesso e tempi di apprendimento possono aiutare, ma senza la volontà di imparare e ricordare qualcosa di nuovo non c’è ricerca scientifica che tenga. 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giovedì 9 settembre 2010

Untitled

MANIFEST DESTINY,episode three-TEASER on Vimeo

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MANIFEST DESTINY,episode three-TEASER on Vimeo

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MANIFEST DESTINY-episode two on Vimeo

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Apogeonline

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Juggle UI

browsernik - Mapping the Mind: Online Atlante interattivo mostra l'attività di 20.000 geni correlati Brain

Check out this website I found at browsernik.livejournal.com

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Prescrizione per un cervello sano: Caffè e sigarette?

 

Ispirato da studi sull'uomo che dimostrano che bevitori di caffè avido e fumatori hanno un rischio inferiore di malattia di Parkinson, gli scienziati dell'Università di Washington ha deciso di vedere cosa java e sigarette fare per i moscerini della frutta. I tremori e disturbi gli altri movimenti di Parkinson sono innescati dalla morte di cellule produttrici di dopamina nel cervello, così gli investigatori usato mosche che erano stati geneticamente modificati per avere le loro cellule della dopamina muoiono mentre invecchiano.Quando Leo Pallanck ei suoi colleghi nutrito di caffè e di tabacco a queste mosche, hanno trovato che i gli animalile cellule della dopamina 'sopravvissuto e la loro durata di vita. Gli scienziati hanno escluso la caffeina e nicotina, le sostanze protettive, ma ci sono altri composti promettenti nel caffè e tabacco, che i ricercatori intendono testare in queste creature breve durata. "Le mosche sono un grande sistema per cercare rapidamente a zero sulle sostanze chimiche che sono responsabili," Pallanck dice.

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martedì 7 settembre 2010

Egoisti per via materna

Dato che, storicamente, fra i nostri antenati le donne hanno cambiato clan o gruppo famigliare più degli uomini e quindi avevano meno relazioni di parentela con quanti le circondavano, i nostri geni paterni e materni si trovano in conflitto sul modo in cui dobbiamo comportarci

Ricercatori dell'Università di Oxford e dell'Università del Tennessee, a Knoxville, hanno esaminato l'impatto sul nostro comportamento di quei geni che, attraverso un processo noto come imprinting genomico, "sanno" da dove provengono. Propriamente, l'imprinting genomico è il processo che per cui l'espressione dei geni è differente a seconda che essi siano stati trasmessi dal padre o dalla madre.

Secondo le scoperte dei ricercatori, dato che storicamente le donne hanno cambiato clan o gruppo famigliare più degli uomini, e quindi avevano meno relazioni di parentela con quanti le circondavano, i nostri materni si trovano in conflitto con i geni paterni sul modo in cui dobbiamo comportarci: i geni paterni tenderebbero a stimolare comportamenti altruistici mentre quelli materni punterebbero a farci adottare un comportamento più egoistico.

'Quando le donne si disperdono maggiormente rispetto a gli uomini, come sembra essere stato il caso dei nostri antenati, ciò comporta che si è maggiormente legati a chi ci circonda attraverso la linea paterna che attraverso quella materna", osserva Andy Gardner, uno degli autori dell'articolo pubblicato sulla rivista Evolution, in cui è descritto lo studio.

'Ciò determina conflitti nell'ambito del comportamento sociale: i geni paterni dicono di essere disponibili nei confronti dei vicini, mentre quelli materni tentano, come un demone appollaiato sulla spalla, di renderci egoisti."

Mutazioni in questi geni erano stati in precedenza associati a disturbi nella crescita nella prima infanzia e a possibili disturbi neuropsichiatrici. Lo studio rivela come questi disturbi nell'ambito neuropsicologico possono evolvere da mutazioni che favoriscono l'espressione dei geni paterni piuttosto che di quelli materni.

'Ciò che rivela la nostra ricerca - ha concluso Gardner - è che l'espressione popolare secondo cui qualcuno 'sta combattendo i propri demoni' psicologici che lo istigano a comportarsi in modo egoistico ha una base nella nostra costituzione genetica: siamo tutti una coalizione di geni in conflitto." (gg)

in riferimento a: Troubleshooting : Contribute with Sidewiki - Toolbar Help (visualizza su Google Sidewiki)

SOFTWERLAND: Studi di fattibilità umani hanno dimostrato di Interfacce Brain-Machine Science | Blog

impianti di nanotecnologia sul cervello umano

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browsernik - Egoisti per via materna


brDato che, storicamente, fra i nostri antenati le donne hanno cambiato clan o gruppo famigliare più degli uomini e quindi avevano meno relazioni di parentela con quanti le circondavano, i nostri geni paterni e materni si trovano in conflitto sul modo in cui dobbiamo comportarci

Ricercatori dell'Università di Oxford e dell'Università del Tennessee, a Knoxville, hanno esaminato l'impatto sul nostro comportamento di quei geni che, attraverso un processo noto come imprinting genomico, "sanno" da dove provengono. Propriamente, l'imprinting genomico è il processo che per cui l'espressione dei geni è differente a seconda che essi siano stati trasmessi dal padre o dalla madre.

Secondo le scoperte dei ricercatori, dato che storicamente le donne hanno cambiato clan o gruppo famigliare più degli uomini, e quindi avevano meno relazioni di parentela con quanti le circondavano, i nostri materni si trovano in conflitto con i geni paterni sul modo in cui dobbiamo comportarci: i geni paterni tenderebbero a stimolare comportamenti altruistici mentre quelli materni punterebbero a farci adottare un comportamento più egoistico.

'Quando le donne si disperdono maggiormente rispetto a gli uomini, come sembra essere stato il caso dei nostri antenati, ciò comporta che si è maggiormente legati a chi ci circonda attraverso la linea paterna che attraverso quella materna", osserva Andy Gardner, uno degli autori dell'articolo pubblicato sulla rivista Evolution, in cui è descritto lo studio.

'Ciò determina conflitti nell'ambito del comportamento sociale: i geni paterni dicono di essere disponibili nei confronti dei vicini, mentre quelli materni tentano, come un demone appollaiato sulla spalla, di renderci egoisti."

Mutazioni in questi geni erano stati in precedenza associati a disturbi nella crescita nella prima infanzia e a possibili disturbi neuropsichiatrici. Lo studio rivela come questi disturbi nell'ambito neuropsicologico possono evolvere da mutazioni che favoriscono l'espressione dei geni paterni piuttosto che di quelli materni.

'Ciò che rivela la nostra ricerca - ha concluso Gardner - è che l'espressione popolare secondo cui qualcuno 'sta combattendo i propri demoni' psicologici che lo istigano a comportarsi in modo egoistico ha una base nella nostra costituzione genetica: siamo tutti una coalizione di geni in conflitto." (gg)
Tags: scienze cognitiveowsernik - Egoisti per via materna

lunedì 6 settembre 2010

browsernik - VideoBox Libero

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browsernik - VideoBox Libero

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VideoBox Libero

Paura di bagnarsi

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Paura di bagnarsi

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Paura del serpente

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Paura del serpente

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L'universo dipinto da Planck

< p>

C’è tutta la storia dell’Universo nella prima mappa a microonde realizzata dal telescopio spaziale Planck: un’immagine a “tutto tondo” e in alta definizione ricostruita grazie ai rivelatori di radiazione elettromagnetica di cui è dotato il satellite, sensibili a nove diverse frequenze elettromagnetiche.

Planck è stato lanciato dall'Ente spaziale europeo nel 2009, insieme al satellite Herschel, per studiare le origini dell’Universo attraverso la radiazione di fondo a microonde (CMB), o radiazione fossile, il segnale originato circa 14 miliardi di anni fa che rappresenta la prima luce dell'Universo, diffusa subito dopo il Big Bang. Il satellite è dotato di nove diversi rivelatori di microonde che coprono un ampio intervallo di frequenze: dai 30 agli 857 GHz (Giga Hertz). I dati raccolti dall'agosto del 2009 fino allo scorso giugno (la procedura è illustrata nell’animazione) sono stati integrati ed elaborati per ottenere una rappresentazione visiva delle radiazioni. Nella mappa diffusa oggi, le alte e le basse latitudini rappresentano la radiazione fossile, offuscata nella parte centrale dalle emissioni della via Lattea, di più recente formazione. Ma grazie all'estrema sensibilità della strumentazione di Planck, attraverso complessi software di analisi ed elaborazione delle immagini sviluppati ad hoc  gli scienziati potranno ottenere le immagini distinte del fondo cosmico e delle emissioni galattiche. 

“La radiazione fossile che riusciamo a intravedere dietro il velo di foschia della galassia giunge a noi direttamente dalla sua infanzia, dopo aver viaggiato per circa quattordici miliardi di anni”, ha spiegato Reno Mandolesi, direttore dell’INAF-IASF Bologna e responsabile del LFI (uno strumento per misurare la temperatura dell’universo bordo di Planck) nel corso della presentazione della mappa a microonde all’European Open Science Forum  in corso a Torino. “Le sue strutture granulari, le anisotropie, ci raccontano di una fase primordiale chiamata inflazione cosmica, che ebbe luogo una frazione di secondo dopo il Big Bang, durante la quale l’Universo si è espanso improvvisamente di oltre quaranta ordini di grandezza”. (a.l.b.)

 

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L'universo dipinto da Planck

C’è tutta la storia dell’Universo nella prima mappa a microonde realizzata dal telescopio spaziale Planck: un’immagine a “tutto tondo” e in alta definizione ricostruita grazie ai rivelatori di radiazione elettromagnetica di cui è dotato il satellite, sensibili a nove diverse frequenze elettromagnetiche.
Planck è stato lanciato dall'Ente spaziale europeo nel 2009, insieme al satellite Herschel, per studiare le origini dell’Universo attraverso la radiazione di fondo a microonde (CMB), o radiazione fossile, il segnale originato circa 14 miliardi di anni fa che rappresenta la prima luce dell'Universo, diffusa subito dopo il Big Bang. Il satellite è dotato di nove diversi rivelatori di microonde che coprono un ampio intervallo di frequenze: dai 30 agli 857 GHz (Giga Hertz). I dati raccolti dall'agosto del 2009 fino allo scorso giugno (la procedura è illustrata nell’animazione) sono stati integrati ed elaborati per ottenere una rappresentazione visiva delle radiazioni. Nella mappa diffusa oggi, le alte e le basse latitudini rappresentano la radiazione fossile, offuscata nella parte centrale dalle emissioni della via Lattea, di più recente formazione. Ma grazie all'estrema sensibilità della strumentazione di Planck, attraverso complessi software di analisi ed elaborazione delle immagini sviluppati ad hoc gli scienziati potranno ottenere le immagini distinte del fondo cosmico e delle emissioni galattiche.
“La radiazione fossile che riusciamo a intravedere dietro il velo di foschia della galassia giunge a noi direttamente dalla sua infanzia, dopo aver viaggiato per circa quattordici miliardi di anni”, ha spiegato Reno Mandolesi, direttore dell’INAF-IASF Bologna e responsabile del LFI (uno strumento per misurare la temperatura dell’universo bordo di Planck) nel corso della presentazione della mappa a microonde all’European Open Science Forum in corso a Torino. “Le sue strutture granulari, le anisotropie, ci raccontano di una fase primordiale chiamata inflazione cosmica, che ebbe luogo una frazione di secondo dopo il Big Bang, durante la quale l’Universo si è espanso improvvisamente di oltre quaranta ordini di grandezza”. (a.l.b.)

domenica 5 settembre 2010

Everybody dancing now

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