Perché l’indecisione è diventata una virtù Vedere la realtà non solamente in bianco e nero, ma in tutte le sfumature di grigio: segno di sviluppo cognitivo, di apertura percettiva, di sensibilità «Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile», scriveva Catullo. «Non so, ma è proprio così, e mi tormento». Se provi sentimenti contrastanti, se vuoi una cosa e il suo opposto, o se credi in una verità ma anche in altre che la contraddicono, benvenuto all’inferno degli «ambivalenti». Andare o restare. Maternità e lavoro. Tinta unita? Ma quanto mi piacciono pure le righe. Gente debole e indecisa che procrastina le scelte: così vengono spesso rappresentati gli ambivalenti. Modello perfetto: il protagonista del romanzo Indecision di Benjamin Kunkel, un newyorchese «rilassato e intrappolato» in un’eterna giovinezza. Lavoro insoddisfacente ma facile, relazioni sentimentali basate sul non volersi impegnare in relazioni sentimentali, deliberata assenza di obiettivi. «Una vita in qualche modo preliminare che continuavo a cominciare e ricominciare da capo», afferma, non senza sconcerto.
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cultura/2011/01/31/img/ambivalenti_velazqu... Nicoletta Cavazza, psicologa sociale: «Si dà per scontato che l’ambivalenza crei tensione emotiva negativa, ma le persone la mantengono nel lungo periodo, senza risolverla. In realtà, essa permette di adattarsi meglio alle situazioni, rendendo gli atteggiamenti flessibili» Oggi, però, alcuni studiosi di psicologia sociale stanno rivalutando l’ambivalenza. Secondo Nicoletta Cavazza dell’Università di Modena-Reggio Emilia e Fabrizio Butera dell’Università di Losanna, «permette di adattarsi meglio alle situazioni». «Le persone ambivalenti - spiega Butera - non sono dei poveretti che non sanno cosa decidere o dare dei giudizi. Sono persone che hanno molte conoscenze, cognizioni, emozioni nei riguardi dello stesso oggetto. Non sono indecisi, ma hanno una visione più differenziata». L’ambivalenza «rende gli atteggiamenti flessibili e quindi funzionali in situazioni che richiedano l’abilità di fronteggiare conflitti», spiega Cavazza. Diverse discipline riflettono oggi sulla necessità di accettare gli ambivalenti, anziché condannarli: non a caso, forse. Pare che la società ci porti tutti ad esserlo sempre di più. La psicologia sociale s’è occupata di questo tema solo dagli anni Novanta, osservando soprattutto gli aspetti «disfunzionali». Frenk van Harreveld dell’Università di Amsterdam ha notato nei suoi esperimenti che l’ambivalenza genera stress e può portare all’indecisione e a procrastinare (ci paralizza la previsione del rammarico che proveremmo dopo una scelta sbagliata); può anche spingere a riflettere di più sui pro e i contro, ma alla fine non conduce a scelte più obiettive. «Mettiamo che io sia perfettamente ambivalente nei confronti dell’eutanasia e che intenda cercare ulteriori informazioni in modo obiettivo: diventerò più ambivalente e sarà più difficile scegliere. Allora comincerò a raccoglierle in modo selettivo» (lui spiega così il successo dei media politicamente schierati: aiutano a decidere orientando verso un polo). René Ziegler, psicologo sociale e delle organizzazioni all’Università di Tübingen in Germania, ha osservato che, se l’impiegato è ambivalente verso il lavoro, la sua produttività è meno prevedibile e più instabile; e chi è ambivalente verso se stesso risente di più di successi e fallimenti personali. Benché non esista un «gene dell’ambivalenza», Mario Mikulincer, rettore della facoltà di psicologia del Centro Herzliya in Israele, dice che «alcune persone lo sono più di altre, e in più circostanze. In genere sono più ansiose, hanno più dubbi su se stesse». In amore, oscillano tra bisogno di legami e di distanza emotiva, temono d’essere lasciate o tradite anche se il partner dà prova del contrario e restano a lungo in rapporti che non funzionano. Di fronte ad una scelta, anziché pensare alle opzioni, «ruminano» su se stesse e sulla paura di sbagliare, finendo col prendere decisioni «false», dettate dal bisogno di approvazione. «Venere e Cupido», olio su tela del pittore Diego Velázquez (1599-1660), realizzato intorno al 1648 (Londra, National Gallery) Gli studiosi hanno riconosciuto agli ambivalenti anche qualche pregio: la creatività, l’empatia, la capacità di ridurre il favoritismo per il gruppo di appartenenza ed essere più equi verso altri gruppi sociali (ad esempio gli immigrati). Richard Boyatzis, docente di comportamento organizzativo, psicologia e scienze cognitive alla Case Western Reserve University, sostiene che sia legata alla capacità di vedere la realtà non in bianco e nero ma in sfumature di grigio: segno di sviluppo cognitivo, di apertura percettiva, di sensibilità, qualità che tendono a produrre leader più competenti (cita Oprah Winfrey); e se i «grigi» hanno obiettivi di lungo periodo e priorità chiare, possono superare anche l’indecisione. Maria Grazia Monaci, docente di psicologia sociale all’Università della Val d’Aosta, spiega che «quando si sceglie con forza tra i due poli, si esercita una violenza su se stessi. Il risultato è che spesso si tende a estremizzare. Sarebbe meglio tollerare le emozioni contrastanti e valutare volta per volta». Secondo Mikulincer molti ci riescono. «A 4-5 anni diventiamo in grado di associare aspetti negativi alle cose belle. Da adolescenti giungiamo alla piena consapevolezza di poter amare e odiare allo stesso tempo. La maggior parte degli adulti mantiene un equilibrio, restando ambivalente in uno stato pre-decisionale e riuscendo a scegliere considerando le varie possibilità». Cavazza e Butera «osano» di più. Sostengono che amare e odiare non debba per forza essere fonte di tormento. «Si dà per scontato che l’ambivalenza crei tensione emotiva negativa - dice Cavazza - ma le persone la mantengono nel lungo periodo, senza risolverla». Se odio e amo, sono in grado di «attivare l’uno o l’altro sentimento in diverse situazioni». Se amo il cioccolato ma odio il fatto che faccia ingrassare, non è un problema. «Lo sarebbe se lo mangiassi sempre, o mai». I loro esperimenti mostrano che chi è ambivalente è in grado di evitare i conflitti in cui invece ricade chi ha opinioni radicali (il che ha un costo emotivo) e di manifestare invece accordo con persone di idee tra loro contrapposte. «Se uno ha atteggiamenti sia positivi sia negativi sulla chiusura del centro cittadino al traffico, potrà discuterne con gli ecologisti e anche con i genitori che devono andare a prendere i figli a scuola e sono contrari», spiega Butera. La ricerca mostra anche che, pur esprimendo consenso, chi è ambivalente resiste di più alle pressioni sociali: non cambia la propria visione di fondo. «In azienda, per integrare informazioni e adattarsi a mercati e clienti diversi, è meglio avere persone più flessibili che stabili», nota lo psicologo. «Il fatto di avere atteggiamenti sia positivi che negativi nei riguardi di un partito, del nucleare, del riciclaggio consente di prendere decisioni più intelligenti. La ricerca mostra infatti che la tendenza a cercare informazioni in linea con le proprie idee politiche è legata all’avere atteggiamenti solidi e ben orientati - il contrario dell’ambivalenza - e che questo può portare a prendere decisioni senza cognizione». Marco Mazzeo, filosofo del linguaggio: « L’ambivalenza permette la scelta individuale. Di fronte ad un bivio, vado a sinistra o a destra? Quel momento è decisivo per rimettere in gioco la tua esistenza. Noi esseri umani siamo per natura animali ambivalenti» Studiosi di altre discipline sottolineano l’importanza di tollerare l’ambivalenza. «È inevitabile in tutte le relazioni», spiega lo psicoanalista Joseph Burgo: imparare ad accettarla «vuol dire venire a patti con quel misto di sentimenti contraddittori che sentiamo per le persone a noi vicine. Da bambini si grida "Ti odio!" alla mamma che ci proibisce di fare qualcosa. Crescendo e maturando, l’esperienza ci insegna che anche se ci sentiamo arrabbiati in un dato momento, non sarà sempre così. Tollerare l’odio verso le persone che amiamo, però, non è semplice. Spesso si ricorre alla scissione: conserviamo l’amore per le persone care e dirigiamo l’ostilità verso qualcun altro o qualcos’altro». Nel film Il Cigno Nero di Darren Aronofsky, la ballerina Nina (Natalie Portman) sogna d’essere la protagonista del Lago dei Cigni. Dolce, fragile, innocente: è perfetta per la parte del Cigno Bianco. Ma non riesce a esprimere l’altro lato di sé - l’odio, la violenza, il desiderio di promiscuità sessuale: il Cigno Nero. Per Burgo, il film è un esempio del «danno causato all’Io dalla scissione del lato distruttivo, e del potere che deriva dal reintegrare quella parte». Nella Città Incantata di Miyazaki, invece, la piccola Chihiro, prigioniera di un mondo fantastico insieme affascinante e spaventoso, supera le prove delle streghe gemelle Yubaba e Zeniba, e così riesce a riconquistare la sua identità e a crescere. Ma l’ambivalenza oggi non è molto accettata, dice Burgo: «Nei libri per bambini come nei manuali di self-help, i sentimenti "corretti" sono solo d’amore». Anche il filosofo Zygmunt Bauman, in Modernità e ambivalenza, sostiene che «la pratica più tipicamente moderna» è «lo sforzo di estirpare l’ambivalenza: uno sforzo di definire con precisione, e di cancellare o eliminare tutto ciò che non si riesce a definire o non si lascia definire con precisione», e afferma che questo atteggiamento è destinato a sfociare nell’intolleranza. Dalla meccanica quantistica a Eros e Thanatos in Freud e alla scienza della logica hegeliana, il pensiero occidentale ha individuato una dicotomia dell’essere che si rispecchia nell’ambivalenza della percezione soggettiva. Le culture orientali, più aperte a riconoscere il dualismo, però, l’accettano di più, argomenta qualcuno. «Le culture cosiddette primitive l’hanno presa sempre sul serio», secondo Marco Mazzeo, ricercatore di Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. «Valorizzano il sogno, dove questo elemento emerge. E per loro veglia e sonno hanno lo stesso grado di realtà». In filosofia, il primo a incarnarne il rifiuto è stato Aristotele con il principio di non contraddizione, afferma lo studioso, mentre i primi ad esaltarla sono stati i sofisti. Eraclito invece l’ha vista da una prospettiva antropologica, «cercando di capire che animali siamo», senza condannarla né esaltarla (gli opposti si compenetrano). Nel saggio Contraddizione e melanconia, Mazzeo spiega che siamo animali ambivalenti. Negli altri animali, «se c’è paralisi o confusione, interviene l’istinto. Noi invece non siamo istintivi, ma pulsionali, con spinte più generiche al comportamento. Un gattino di pochi mesi sa già tutto; un bambino fa solo molto casino, ha potenzialità e limiti da esplorare». Il grande potenziale dell’ambivalenza è che «permette la scelta individuale. Di fronte a un bivio, vado a sinistra o a destra? Quel momento è decisivo per rimettere in gioco la tua esistenza». Meglio, però, non sguazzarci dentro. «Oggi l’ambivalenza è di moda, esaltata dal pensiero postmoderno - afferma Mazzeo -. Ti amo! No, ti odio! Cambiare idea ogni cinque secondi, essere sempre giovani e belli... Il rischio è di rientrare nel cliché del giovane spensierato e finire col fare una vita standardizzata, sprofondata nell’ambivalenza e ferma a quel punto». C’è chi dice che oggi siamo tutti più ambivalenti. «L’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo», cantava Giorgio Gaber. «Più scelta significa più libertà ma anche più responsabilità, e l’aumento di informazioni ci espone sempre più sia agli aspetti positivi che negativi di ogni cosa», osserva van Harreveld. Non aiuta, si nota in Indecision, il fatto di «vivere in una società consumistica nella quale i tuoi desideri vengono continuamente solleticati ed esauditi ma in piccolissime dosi, in modo che non riesci mai a investire la passione sufficiente in una qualsiasi specifica cosa». Ma anche nella società borghese in crisi degli Indifferenti di Moravia c’era ambivalenza da vendere. Ad ogni epoca (e luogo) le sue ragioni. Secondo Mazzeo, oggi «ci si trova a gestire un’ambivalenza imposta socialmente dall’alto, e si arriva al punto che a volte diventa difficile costruire una vita individuale. Lavoro e non lavoro, sono giovane e non lo sono… Si definiscono "giovani" i ricercatori dai 26 ai 56 anni. Non è un problema solo di comunicazione. Le persone non sanno se sono giovani o no, si comportano da giovani e insieme da vecchi». Ma se davvero esistesse l’Abulinix, il farmaco che nel romanzo Indecision promette una risolutezza a prova di bomba, lo prenderemmo? Dwight, il protagonista, non ci pensa due volte. Ed effettivamente comincia a fare delle scelte, ma poi scopre d’aver assunto un placebo per sbaglio - e per fortuna: il medico gli comunica che la prima decisione presa dai pazienti sotto effetto del farmaco è il suicidio (morale: «Essere o non essere è davvero il problema»). In realtà, Dwight ha trovato qualcuno con cui riesce a comunicare, e per la prima volta vuole scegliere. Il linguaggio è «una medicina omeopatica che riesce a strutturare l’ambivalenza - spiega Mazzeo - perché ne replica la struttura». Ma «farmaco», dal greco farmakon, vuol dire «rimedio» e anche «veleno». «Il linguaggio rende l’ambivalenza ancora più potente, più oscillante, meno risolta». Non c’è un «ti amo» assoluto, alla fine. Alla proposta di Dwight di sposarlo, la sua metà appare «triste e felice, scettica e piena di desiderio». «Mi piacerebbe - risponde -. Ma non adesso. Forse mai. Non lo so davvero». Viviana Mazza 31 gennaio 2011(ultima modifica: 01 febbraio 2011) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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