sabato 5 febbraio 2011

10 materiali che aiuteranno il Pianeta [gallery] - Wired.it

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venerdì 4 febbraio 2011

VISIONE/ Per cogliere la bellezza, il nostro occhio si affida alla statistica | Pagina 1

La visione è uno dei compiti più impegnativi per il nostro cervello, basti pensare che utilizziamo il 4% dell’energia che acquisiamo mangiando nel vedere.  Questo può stupire fino ad un certo punto, data la complessità di questo compito. A ricevere il segnale che viene dall’esterno è la retina, che contiene circa 100 milioni di fotorecettori. È da tempo evidente che non è possibile per il nostro cervello esaminare punto per punto in ogni istante 100 milioni di segnali per creare l’immagine percepita. Si è così scoperto che, mentre nella zona centrale della retina, che è utilizzata quando fissiamo un oggetto, si ha un utilizzo molto preciso dei fotorecettori, sul bordo della retina il sistema visivo cerca di aggregare molti segnali insieme per non rendere il processo visivo troppo faticoso. In questo modo il nostro occhio è estremamente preciso quando fissa un oggetto, mentre non vede dettagli sul bordo della retina, ma in tale zona è molto sensibile al movimento.

Il meccanismo con cui avviene questa “compressione” da 100 milioni di punti a un’immagine che il cervello elabora in maniera rapidissima è però ancora da chiarire completamente. Ecco perché ha suscitato interesse uno studio presentato la settimana scorsa al congresso della “Society of Photo-Optical Instrumentation Engineers’ Human Vision and Electronic Imaging” dalla ricercatrice Ruth Rosenholtz del Dipartimento di Scienze Cognitive del MIT. L’idea principale di questo lavoro è che, via via che ci allontaniamo dal centro della retina, il sistema visivo si limita sempre più a una statistica della scena che sta osservando, lasciando perdere i dettagli esatti. In un certo senso non osserva, ad esempio, se ci sono linee verticali od orizzontali, ma se valuta che la maggioranza delle linee sia verticale  passa al cervello questa risposta “di massima”.

Il modello proposto potrebbe spiegare bene un problema noto da tempo nella scienza della visione e corrispondente al cosiddetto “crowding” (che potremmo tradurre come affollamento): se si fissa il centro di un foglio e lateralmente c’è stampata una singola lettera, siamo in grado di riconoscerla; ma se lateralmente non vi è una singola lettera, ma più lettere una accanto all’altra, non siamo in grado di riconoscere le lettere nonostante il compito sembri apparentemente della stessa difficoltà. Questo potrebbe essere spiegato, nell’idea di Rosenholtz, dal fatto che quando si guardano tante lettere una accanto all’altra il sistema registra una “statistica” delle lettere e non il singolo dettaglio.


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I batteri ci controllano la mente - Wired.it

I batteri ci controllano la mente

Cambiamenti di umore, felicità inspiegabile, memoria migliorata, depressione. Tutti effetti spiegabili da un'infezione batterica in corso, per la gioia degli ipocondriaci

04 febbraio 2011 di Caterina Visco

cervello

cervello

 

  • cervello

    cervello

    cervello

Contento o con il morale a terra, con atteggiamenti strani o affetto da veri e propri disturbi mentali. La causa potrebbe essere, almeno in parte, di un’infezione batterica e della conseguente risposta del sistema immunitario. Alcuni studi, infatti, mostrano che questo processo può influenzare il nostro umore, la memoria e le capacità di apprendimento. E persino modellare la nostra personalità, secondo quanto racconta un articolo su New Scientist. La buona notizia? Comprendere questi legami tra cervello e sistema immunitario potrebbe portare a un nuovo modo di trattare alcuni disordini, dalla depressione alla sindrome di Tourette.

Comportamento

Sammy Maloney era un dodicenne di Kennebunkport nel Maine, sano, che suonava nella banda della scuola e che più di ogni altra cosa amava andarsene in giro con i suoi amici dopo le lezioni. Nel 2002, però, qualcosa cominciò a cambiare nella sua personalità. Prima cominciò a camminare a occhi chiusi per tutto il cortile, poi a usare solo la porta sul retro per entrare in casa, a indossare solo alcuni indumenti, a impedire che le finestre venissero aperte o che le luce fossero spente. Nel giro di quattro-sei settimane al ragazzo venne diagnosticato prima un disturbo ossessivo compulsivo, poi una sindrome di Tourette. Fortunatamente, qualche tempo dopo un amico di famiglia suggerì ai genitori di Sammy di sottoporlo a un test per lo streptococco, un comune batterio che di solito non provoca più di un mal di gola. Sam non mostrava nessun sintomo da infezione da streptococco, ma le analisi rivelarono l’infezione in atto; quando il medico prescrisse una terapia antibiotica, i suoi sintomi cominciarono a migliorare. Oggi è un ventenne come tutti gli altri.

Per quanto raro, il caso di Sammy, non è del tutto inusuale. Almeno secondo Madeline Cunningham della University of Oklahoma che ha passato anni a studiare i disturbi comportamentali legati a infezioni infantili da streptococco, inclusa la sindrome di Tourette, un disturbo chiamato Pandas e la Corea di Syndenham (associata a tic e incapacità di controllare le proprie emozioni). Cunningham ha dimostrato che alcuni anticorpi contro un tipo di streptococco legano i recettori di alcune aree del cervello che controllano i movimenti, portando al rilascio del neurotrasmettitore dopamina. Il che spiegherebbe i tic e i problemi emotivi sperimentati in alcuni dei bambini con questi disordini. Betty Diamond del Feinstein Institute for Medical Research in Manhasset, New York, ha inoltre dimostrato che alcuni anticorpi associati con il lupus, una malattia autoimmune, riescono a distruggere i neuroni legandosi a particolari recettori nel cervello. Questo potrebbe in parte spiegare i cambiamenti di umore e il declino cognitivo associato alla malattia.

Felicità
Esiste un batterio che regala il buon umore, si chiama Mycobacterium vaccae. Inizialmente doveva essere un nuovo modo per sconfiggere il cancro.

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giovedì 3 febbraio 2011

Rio Citarium - "Google Documenti"

INCREDIBILE

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Un modesto esercizio di futurologia | Scienza in Rete

Attualmente la futurologia più impegnata è focalizzata sui temi riguardanti il clima, le risorse naturali e l’energia. In particolare vanno di moda le road map, i cui itinerari indicano lo slalom che si deve seguire per sfuggire nel contempo alla incombente carestia dei combustibili fossili e all’inquinamento attribuito al loro smisurato uso. Ignorando che, così impostato, il problema costituisce un ossimoro. Ce n’è per tutti i gusti, ovvero per chi sogna un avvenire energetico presidiato da flotte di reattori nucleari, oppure per chi alternativamente preconizza distese di pannelli solari. Ma c’è anche chi teme con sgomento la deturpazione dei paesaggi naturali dalle pale rotanti delle torri eoliche e da funebri specchi neri montati su tralicci zincati.

the future of energy

Nasce però il sospetto che tali atteggiamenti riflettano un certo conformismo. Una laconica testimonianza ci viene fornita dalla seguente immagine che enfatizza quali tecnologie affrancheranno finalmente l’umanità dalla cupa egemonia del petrolio.

Si tratta di un'icona nella quale, con eleganti immagini, viene esemplificato un messaggio largamente diffuso che esalta un mondo alimentato da energia pulita proveniente dal sole, dal vento, dalle biomasse, dal sottosuolo e dalle correnti marine, quindi solo da risorse naturali rinnovabili. Purtroppo esso contrasta con l’identikit dei consumi energetici mondiali, espresso dal seguente scarno diagramma fornito dal Department of Energy USA.

International Energy
(US Energy Information Administration. Energy Perspectives. 2009)

Risulta che la produzione di energia è stata, ed è tutt’ora, dominata dai combustibili fossili con un apprezzabile contributo delle fonti idroelettrica e nucleare. Le altre fonti (other) sono confinate in una sottile linea gialla che indica un loro modesto contributo. Anche se i dati si riferiscono al 2005, e da allora il consumo energetico globale è un po’ aumentato, la ripartizione fra le diverse fonti è rimasta sostanzialmente inalterata. Ma soprattutto, in base all’incremento che hanno avuto sino ad ora, solo con una temeraria estrapolazione si può ritenere che tali fonti  possano avvicendare in meno di quarant’anni i combustibili fossili e allontanare la prospettiva di una adeguata collocazione all’energia nucleare. E ciò sia pure con tutto il rispetto per le road map.In sostanza non si può fare a meno di pensare che le menzionate previsioni siano ispirate più dal sentimento che della ragione. Per tentare di approfondire questo aspetto è opportuno identificare alcune situazioni tipiche, derivanti dal confronto fra lo stato del mondo e i desideri umani. Per semplicità ne verranno considerate solo quattro, quelle emergenti dalle ipotesi che nel mondo esistano risorse rispettivamente illimitate o limitate, e che la società manifesti atteggiamenti rispettivamente ottimistici o scettici nei riguardi delle tecnologie. Ne emerge la seguente matrice:

 Risorse senza limitiRisorse limitate
Ottimismo tecnologicoStar trekMad Max
Scetticismo tecnologicoConformismo politicoEgemonia ecologica

Nello specifico  indicano rispettivamente:

(A) Star Trek: dal titolo del popolare serial televisivo che ci presenta un mondo tecnologicizzato, che in virtù dell’abbondanza di energia proveniente dalla fusione nucleare può esplorare, ed eventualmente colonizzare, l’Universo intero. Sulla Terra prevale il consumismo.
(B) Mad Max: dal titolo del film con Mel Gibson, nel quale una umanità stracciona si contende con lotte feroci le ultime gocce di petrolio, per accanirsi a voler deambulare senza scopi precipui in un paesaggio allucinante mediante veicoli mossi da motori a scoppio.
(C) Conformismo politico: una umanità ricca di risorse che diffida delle tecnologie e quindi delega ai politici la gestione dello sviluppo.
(D) Egemonia ecologica: grande enfasi viene data ai comportamenti rispettosi per l’ambiente e, soprattutto, al risparmio dell’energia. Gli eventuali sviluppi tecnologici sono demandati alle imposte tipo cap and trade, mentre gli inquinatori vengono puniti.

Quattro situazioni analoghe alle precedenti sono state l’oggetto di una votazione (Costanza 2003), nella quale è stato chiesto quale venisse ritenuta più probabile per descrivere il futuro. Essa ha portato al seguente risultato:

Prima la (D), seguita a distanza dalla (A) e quindi dalla (C). La (B) è stata respinta.

Se è difficile fare previsioni sul futuro si può ragionevolmente ipotizzare a quale risultato avrebbe portato una votazione condotta nel passato, ad esempio una quarantina di anni fa. La (A) sarebbe risultata nettamente favorita, mentre la (D) sarebbe stata snobbata. In sostanza i sentimenti sono mobili e offrono modeste indicazioni su come orientare le politiche.

In realtà nessuna di tali situazioni è candidata a descrivere il futuro del pianeta; fare esercizi di futurologia serve forse solo per imporre agli altri particolari comportamenti con l’alibi che nessuno avrà la possibilità di verificarne gli effetti.

Lo studio del passato evidenzia in realtà come l’umanità sia riuscita a superare situazioni critiche che ne hanno minacciato l’estinzione. Il mondo è soggetto ad un cambiamento continuo ed una componente essenziale di tale evoluzione è la popolazione umana, che continua ad aumentare, anche se cominciano a manifestarsi i sintomi di un rallentamento della crescita. L’idea di mantenere inalterato l’ambiente appare utopica, mentre più ragionevolmente ci si deve adattare ai mutamenti. Ogni sforzo deve essere impiegato per tutelare l’ambiente da evoluzioni devastanti che in larga misura non derivano dall’impiego dell’energia, che costituisce viceversa il principale fattore di sviluppo, ma dall’incuria con la quale vengono gestite le sue applicazioni.

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mercoledì 2 febbraio 2011

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RT Hueniverse Introducing OAuth 2.0 - p

0Auth 2.0
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    Git Config --Global Github.user Nik0c...

    configuration
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    Il Decalogo di Noam Chomsky

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    Il Decalogo di Noam Chomsky

    studio sul condizionamento informatico
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    IL MESSAGGIO CHIMICO DELLE LACRIME

    ricerca scientifica
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    Presentazione senza titolo

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    New Order Project

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    La Fame Nel Mondo

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    Rio_Citarium

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    Gemäldegalerie : Art Project, powered by Google

    By Google ArtProject you can visit all museums online

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    Speedflying in Wengen 2010

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    dopiaza.org

    Flickr Badge Maker

    If you have any questions about the Badge Maker, please visit the Flickr group.

    You appear to be running Internet Explorer 6. That's really a rather old and antiquated browser. Even Microsoft recommends that you stop using it and upgrade to one of the more recent versions. Anyway, the Badge Maker has only been partially tested under IE6. You can give it a whirl if you like, but there are no promises. Don't bother clicking on the Preview link though, it will just look a mess if you do.

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    Rio Citarium - "Google Documenti"

    INCREDIBLE

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    martedì 1 febbraio 2011

    Perché l’indecisione è diventata una virtù - Corriere della Sera

    Perché l’indecisione è diventata una virtù Vedere la realtà non solamente in bianco e nero, ma in tutte le sfumature di grigio: segno di sviluppo cognitivo, di apertura percettiva, di sensibilità «Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile», scriveva Catullo. «Non so, ma è proprio così, e mi tormento». Se provi sentimenti contrastanti, se vuoi una cosa e il suo opposto, o se credi in una verità ma anche in altre che la contraddicono, benvenuto all’inferno degli «ambivalenti». Andare o restare. Maternità e lavoro. Tinta unita? Ma quanto mi piacciono pure le righe. Gente debole e indecisa che procrastina le scelte: così vengono spesso rappresentati gli ambivalenti. Modello perfetto: il protagonista del romanzo Indecision di Benjamin Kunkel, un newyorchese «rilassato e intrappolato» in un’eterna giovinezza. Lavoro insoddisfacente ma facile, relazioni sentimentali basate sul non volersi impegnare in relazioni sentimentali, deliberata assenza di obiettivi. «Una vita in qualche modo preliminare che continuavo a cominciare e ricominciare da capo», afferma, non senza sconcerto. http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cultura/2011/01/31/img/ambivalenti_velazqu... Nicoletta Cavazza, psicologa sociale: «Si dà per scontato che l’ambivalenza crei tensione emotiva negativa, ma le persone la mantengono nel lungo periodo, senza risolverla. In realtà, essa permette di adattarsi meglio alle situazioni, rendendo gli atteggiamenti flessibili» Oggi, però, alcuni studiosi di psicologia sociale stanno rivalutando l’ambivalenza. Secondo Nicoletta Cavazza dell’Università di Modena-Reggio Emilia e Fabrizio Butera dell’Università di Losanna, «permette di adattarsi meglio alle situazioni». «Le persone ambivalenti - spiega Butera - non sono dei poveretti che non sanno cosa decidere o dare dei giudizi. Sono persone che hanno molte conoscenze, cognizioni, emozioni nei riguardi dello stesso oggetto. Non sono indecisi, ma hanno una visione più differenziata». L’ambivalenza «rende gli atteggiamenti flessibili e quindi funzionali in situazioni che richiedano l’abilità di fronteggiare conflitti», spiega Cavazza. Diverse discipline riflettono oggi sulla necessità di accettare gli ambivalenti, anziché condannarli: non a caso, forse. Pare che la società ci porti tutti ad esserlo sempre di più. La psicologia sociale s’è occupata di questo tema solo dagli anni Novanta, osservando soprattutto gli aspetti «disfunzionali». Frenk van Harreveld dell’Università di Amsterdam ha notato nei suoi esperimenti che l’ambivalenza genera stress e può portare all’indecisione e a procrastinare (ci paralizza la previsione del rammarico che proveremmo dopo una scelta sbagliata); può anche spingere a riflettere di più sui pro e i contro, ma alla fine non conduce a scelte più obiettive. «Mettiamo che io sia perfettamente ambivalente nei confronti dell’eutanasia e che intenda cercare ulteriori informazioni in modo obiettivo: diventerò più ambivalente e sarà più difficile scegliere. Allora comincerò a raccoglierle in modo selettivo» (lui spiega così il successo dei media politicamente schierati: aiutano a decidere orientando verso un polo). René Ziegler, psicologo sociale e delle organizzazioni all’Università di Tübingen in Germania, ha osservato che, se l’impiegato è ambivalente verso il lavoro, la sua produttività è meno prevedibile e più instabile; e chi è ambivalente verso se stesso risente di più di successi e fallimenti personali. Benché non esista un «gene dell’ambivalenza», Mario Mikulincer, rettore della facoltà di psicologia del Centro Herzliya in Israele, dice che «alcune persone lo sono più di altre, e in più circostanze. In genere sono più ansiose, hanno più dubbi su se stesse». In amore, oscillano tra bisogno di legami e di distanza emotiva, temono d’essere lasciate o tradite anche se il partner dà prova del contrario e restano a lungo in rapporti che non funzionano. Di fronte ad una scelta, anziché pensare alle opzioni, «ruminano» su se stesse e sulla paura di sbagliare, finendo col prendere decisioni «false», dettate dal bisogno di approvazione. «Venere e Cupido», olio su tela del pittore Diego Velázquez (1599-1660), realizzato intorno al 1648 (Londra, National Gallery) Gli studiosi hanno riconosciuto agli ambivalenti anche qualche pregio: la creatività, l’empatia, la capacità di ridurre il favoritismo per il gruppo di appartenenza ed essere più equi verso altri gruppi sociali (ad esempio gli immigrati). Richard Boyatzis, docente di comportamento organizzativo, psicologia e scienze cognitive alla Case Western Reserve University, sostiene che sia legata alla capacità di vedere la realtà non in bianco e nero ma in sfumature di grigio: segno di sviluppo cognitivo, di apertura percettiva, di sensibilità, qualità che tendono a produrre leader più competenti (cita Oprah Winfrey); e se i «grigi» hanno obiettivi di lungo periodo e priorità chiare, possono superare anche l’indecisione. Maria Grazia Monaci, docente di psicologia sociale all’Università della Val d’Aosta, spiega che «quando si sceglie con forza tra i due poli, si esercita una violenza su se stessi. Il risultato è che spesso si tende a estremizzare. Sarebbe meglio tollerare le emozioni contrastanti e valutare volta per volta». Secondo Mikulincer molti ci riescono. «A 4-5 anni diventiamo in grado di associare aspetti negativi alle cose belle. Da adolescenti giungiamo alla piena consapevolezza di poter amare e odiare allo stesso tempo. La maggior parte degli adulti mantiene un equilibrio, restando ambivalente in uno stato pre-decisionale e riuscendo a scegliere considerando le varie possibilità». Cavazza e Butera «osano» di più. Sostengono che amare e odiare non debba per forza essere fonte di tormento. «Si dà per scontato che l’ambivalenza crei tensione emotiva negativa - dice Cavazza - ma le persone la mantengono nel lungo periodo, senza risolverla». Se odio e amo, sono in grado di «attivare l’uno o l’altro sentimento in diverse situazioni». Se amo il cioccolato ma odio il fatto che faccia ingrassare, non è un problema. «Lo sarebbe se lo mangiassi sempre, o mai». I loro esperimenti mostrano che chi è ambivalente è in grado di evitare i conflitti in cui invece ricade chi ha opinioni radicali (il che ha un costo emotivo) e di manifestare invece accordo con persone di idee tra loro contrapposte. «Se uno ha atteggiamenti sia positivi sia negativi sulla chiusura del centro cittadino al traffico, potrà discuterne con gli ecologisti e anche con i genitori che devono andare a prendere i figli a scuola e sono contrari», spiega Butera. La ricerca mostra anche che, pur esprimendo consenso, chi è ambivalente resiste di più alle pressioni sociali: non cambia la propria visione di fondo. «In azienda, per integrare informazioni e adattarsi a mercati e clienti diversi, è meglio avere persone più flessibili che stabili», nota lo psicologo. «Il fatto di avere atteggiamenti sia positivi che negativi nei riguardi di un partito, del nucleare, del riciclaggio consente di prendere decisioni più intelligenti. La ricerca mostra infatti che la tendenza a cercare informazioni in linea con le proprie idee politiche è legata all’avere atteggiamenti solidi e ben orientati - il contrario dell’ambivalenza - e che questo può portare a prendere decisioni senza cognizione». Marco Mazzeo, filosofo del linguaggio: « L’ambivalenza permette la scelta individuale. Di fronte ad un bivio, vado a sinistra o a destra? Quel momento è decisivo per rimettere in gioco la tua esistenza. Noi esseri umani siamo per natura animali ambivalenti» Studiosi di altre discipline sottolineano l’importanza di tollerare l’ambivalenza. «È inevitabile in tutte le relazioni», spiega lo psicoanalista Joseph Burgo: imparare ad accettarla «vuol dire venire a patti con quel misto di sentimenti contraddittori che sentiamo per le persone a noi vicine. Da bambini si grida "Ti odio!" alla mamma che ci proibisce di fare qualcosa. Crescendo e maturando, l’esperienza ci insegna che anche se ci sentiamo arrabbiati in un dato momento, non sarà sempre così. Tollerare l’odio verso le persone che amiamo, però, non è semplice. Spesso si ricorre alla scissione: conserviamo l’amore per le persone care e dirigiamo l’ostilità verso qualcun altro o qualcos’altro». Nel film Il Cigno Nero di Darren Aronofsky, la ballerina Nina (Natalie Portman) sogna d’essere la protagonista del Lago dei Cigni. Dolce, fragile, innocente: è perfetta per la parte del Cigno Bianco. Ma non riesce a esprimere l’altro lato di sé - l’odio, la violenza, il desiderio di promiscuità sessuale: il Cigno Nero. Per Burgo, il film è un esempio del «danno causato all’Io dalla scissione del lato distruttivo, e del potere che deriva dal reintegrare quella parte». Nella Città Incantata di Miyazaki, invece, la piccola Chihiro, prigioniera di un mondo fantastico insieme affascinante e spaventoso, supera le prove delle streghe gemelle Yubaba e Zeniba, e così riesce a riconquistare la sua identità e a crescere. Ma l’ambivalenza oggi non è molto accettata, dice Burgo: «Nei libri per bambini come nei manuali di self-help, i sentimenti "corretti" sono solo d’amore». Anche il filosofo Zygmunt Bauman, in Modernità e ambivalenza, sostiene che «la pratica più tipicamente moderna» è «lo sforzo di estirpare l’ambivalenza: uno sforzo di definire con precisione, e di cancellare o eliminare tutto ciò che non si riesce a definire o non si lascia definire con precisione», e afferma che questo atteggiamento è destinato a sfociare nell’intolleranza. Dalla meccanica quantistica a Eros e Thanatos in Freud e alla scienza della logica hegeliana, il pensiero occidentale ha individuato una dicotomia dell’essere che si rispecchia nell’ambivalenza della percezione soggettiva. Le culture orientali, più aperte a riconoscere il dualismo, però, l’accettano di più, argomenta qualcuno. «Le culture cosiddette primitive l’hanno presa sempre sul serio», secondo Marco Mazzeo, ricercatore di Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. «Valorizzano il sogno, dove questo elemento emerge. E per loro veglia e sonno hanno lo stesso grado di realtà». In filosofia, il primo a incarnarne il rifiuto è stato Aristotele con il principio di non contraddizione, afferma lo studioso, mentre i primi ad esaltarla sono stati i sofisti. Eraclito invece l’ha vista da una prospettiva antropologica, «cercando di capire che animali siamo», senza condannarla né esaltarla (gli opposti si compenetrano). Nel saggio Contraddizione e melanconia, Mazzeo spiega che siamo animali ambivalenti. Negli altri animali, «se c’è paralisi o confusione, interviene l’istinto. Noi invece non siamo istintivi, ma pulsionali, con spinte più generiche al comportamento. Un gattino di pochi mesi sa già tutto; un bambino fa solo molto casino, ha potenzialità e limiti da esplorare». Il grande potenziale dell’ambivalenza è che «permette la scelta individuale. Di fronte a un bivio, vado a sinistra o a destra? Quel momento è decisivo per rimettere in gioco la tua esistenza». Meglio, però, non sguazzarci dentro. «Oggi l’ambivalenza è di moda, esaltata dal pensiero postmoderno - afferma Mazzeo -. Ti amo! No, ti odio! Cambiare idea ogni cinque secondi, essere sempre giovani e belli... Il rischio è di rientrare nel cliché del giovane spensierato e finire col fare una vita standardizzata, sprofondata nell’ambivalenza e ferma a quel punto». C’è chi dice che oggi siamo tutti più ambivalenti. «L’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo», cantava Giorgio Gaber. «Più scelta significa più libertà ma anche più responsabilità, e l’aumento di informazioni ci espone sempre più sia agli aspetti positivi che negativi di ogni cosa», osserva van Harreveld. Non aiuta, si nota in Indecision, il fatto di «vivere in una società consumistica nella quale i tuoi desideri vengono continuamente solleticati ed esauditi ma in piccolissime dosi, in modo che non riesci mai a investire la passione sufficiente in una qualsiasi specifica cosa». Ma anche nella società borghese in crisi degli Indifferenti di Moravia c’era ambivalenza da vendere. Ad ogni epoca (e luogo) le sue ragioni. Secondo Mazzeo, oggi «ci si trova a gestire un’ambivalenza imposta socialmente dall’alto, e si arriva al punto che a volte diventa difficile costruire una vita individuale. Lavoro e non lavoro, sono giovane e non lo sono… Si definiscono "giovani" i ricercatori dai 26 ai 56 anni. Non è un problema solo di comunicazione. Le persone non sanno se sono giovani o no, si comportano da giovani e insieme da vecchi». Ma se davvero esistesse l’Abulinix, il farmaco che nel romanzo Indecision promette una risolutezza a prova di bomba, lo prenderemmo? Dwight, il protagonista, non ci pensa due volte. Ed effettivamente comincia a fare delle scelte, ma poi scopre d’aver assunto un placebo per sbaglio - e per fortuna: il medico gli comunica che la prima decisione presa dai pazienti sotto effetto del farmaco è il suicidio (morale: «Essere o non essere è davvero il problema»). In realtà, Dwight ha trovato qualcuno con cui riesce a comunicare, e per la prima volta vuole scegliere. Il linguaggio è «una medicina omeopatica che riesce a strutturare l’ambivalenza - spiega Mazzeo - perché ne replica la struttura». Ma «farmaco», dal greco farmakon, vuol dire «rimedio» e anche «veleno». «Il linguaggio rende l’ambivalenza ancora più potente, più oscillante, meno risolta». Non c’è un «ti amo» assoluto, alla fine. Alla proposta di Dwight di sposarlo, la sua metà appare «triste e felice, scettica e piena di desiderio». «Mi piacerebbe - risponde -. Ma non adesso. Forse mai. Non lo so davvero». Viviana Mazza 31 gennaio 2011(ultima modifica: 01 febbraio 2011) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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