sabato 14 maggio 2011

Il Maghreb, l’Occidente e l’arte (davvero) rivoluzionaria | Artribune

Il Maghreb, l’Occidente e l’arte (davvero) rivoluzionaria

Egyptian Revolution Got Real

I fatti che hanno sconvolto e stanno sconvolgendo il Medio Oriente alludono a un’assenza obiettiva di coordinate interpretative nel mondo occidentale, di paradigmi che possano orientare il dibattito politologico. A registrare quest’assenza di pensiero sono i necrologi dell’intelligenza occidentale, i manifesti mortuari della critica affissi sulle pareti traslucide dei palinsesti televisivi.
A tentare invece una difficile definizione ci stanno pensando i Wu Ming, che dopo aver giustamente liquidato i movimenti arabi di piazza che hanno anticipato di un decennio quelli odierni – “Oggi è abbastanza evidente che quei movimenti, lungi dall’essere vere e proprie rivoluzioni, erano piuttosto campagne politiche, in alcuni casi non-violente, studiate per rovesciare una maggioranza parlamentare forte e autoritaria”, scrivevano in Disintossicare l’evento, ovvero: come si racconta una rivoluzione? – si sono lungamente soffermati sui nuovi, arrivando a cogliere, in qualche misura, una delle poche cifre importanti della storia contemporanea: le narrazioni alternative e alternate, che nel loro prodursi sono già rivoluzionarie.

Roberto Saviano

Nel mondo arabo è in atto un’interruzione narrativa, non ancora un nuovo racconto, in una fase in cui la politica occidentale tutta costruisce velleitariamente un vaniloquente restyling di se stessa. Se ci pensiamo bene, che cosa sono, peadr esempio, le retoriche televisive di Roberto Saviano sulla macchina del fango, se non una normale, media e insufficiente presa d’atto cerebrale di una condizione propria delle democrazie occidentali: la loro necrosi acuta nei gangli del potere mediatico?
In verità, ciò che poco viene detto e che meriterebbe di esser ripreso in considerazione è che quel che resta dell’Occidente è la violenza. Laddove la democrazia latita, si ritira in convento o in preghiera di fronte all’avanzata della novità magrebina, gli apparati militari imperano indisturbati, con il normale avallo delle risibili risoluzioni Onu. Non una violenza qualunque, ma una vera e propria violenza millenaristica di Stato.

Joker

Si legge in controluce che la pretesa occidentale di essere l’unico e solo mondo della produzione di senso politico per il globo si sgretola piano piano. Sembra di essere di fronte a quel decesso collettivo di cui parla Ian McEwan in Blues della fine del mondo, ma così in fondo non è. Non è nel Mediterraneo del Sud, non è nel mondo arabo più largo, non è in America Latina, non è nemmeno in Africa Centrale, dove finanche le donne iniziano a innescare piccoli e medi cortocircuiti, esplosioni di avversità alla rigidità dei sistemi simbolici di dominio. E così non sarà probabilmente più nell’arte, se essa saprà nell’immediato futuro re-interpretare il reale, prevederne gli sviluppi, orientarne le crisi, demolirne i sensi comuni per preconizzarne di nuovi. Smetterla di piantonare la violenta controrivoluzione culturale occidentale.

Royal Pizza

Arte, che il vivissimo web decreterà come tale, contro il necrofilo mezzo televisivo. È già arte la messa di video delle rivolte in atto: un profluvio di installazioni permanenti sul web, di indicazioni di futuro; un accelerato collage cinematografico e documentaristico che attiva la solidarietà, la comprensione, l’intelligenza visuale e quella riflettente. Arte che non si cura più delle parole, della meditazione querelante dei mostri dell’intelligenza occidentale, perché è già oltre il limite temporale della retorica, oltre le lentezze sacerdotali delle contro-macchine del fango, oltre le nostre indecenti lallazioni giornalistiche.
Arte, che ammucchia corpi, per dirla con Antonin Artaud, al di là della coscienza e del cervello, per mera esigenza di vita.

Leonardo Palmisano

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Voodoo come arte primitiva. Tesi azzardate alla Fondation Cartier | Artribune

oodoo come arte primitiva. Tesi azzardate alla Fondation Cartier

Vaudou – veduta della mostra presso la Fondation Cartier, Parigi 2011

Gli elementi per una mostra coi fiocchi ci son tutti. A partire dal tema: il voodoo, anello di connessione tra cielo e terra, manufatto al contempo religioso, magico e artistico, rituale sacro che si ripete sempre uguale nella forma e sempre diverso nei suoi effetti. L’allestimento di Enzo Mari, sobrio ma efficace, permette a queste opere imperscrutabili di diventare solenni protagoniste dello spazio. Il percorso è organizzato ricalcando il viaggio dell’esploratore: s’incontrano prima gli oggetti più grandi, quelli che si ergono al centro del villaggio, per poi scendere nell’intimità delle case, a incontrare i bocho più piccoli, quelli domestici, per utilizzo personale.

Scultura vaodou Fon – Bénin – legno, patina sacrificale – cm 43x14x11

Ma l’implicita premessa dell’esposizione non ha convinto del tutto, e la domanda resta aperta: è lecito dedurre, a partire dalle “grammatiche” delle statuette (ci sono degli elementi che si ripetono costantemente quali l’uso della corda, del doppio volto, delle forature dei corpi, tanto che risulta facile dedurre una sintassi della preghiera), dei giudizi estetici? Sebbene velatamente, l’attenzione si concentra sulla bellezza e la cura dedicata dei dettagli, al di là della funzionalità, o sul possibile confronto con opere artistiche contemporanee.

Enzo Mari nella sala video

La valorizzazione delle arti primitive è continuo motivo di scontri nel campo dell’etnografia, e anche la figura di Jacques Kerchache, gallerista e autore di innumerevoli libri sull’arte africana, non solleva solo apprezzamenti. Kerchache era in prima fila a insistere perché i musei francesi abbandonassero un approccio etnografico delle arti primitive e le giudicassero in base a valori estetici “universali”. Promotore dell’apertura di una sezione del Louvre dedicata alle arti primitive e tra i fondatori del Museo di Quai Brainly, il suo pensiero viene considerato da molti studiosi ed etnografi contemporanei una spettacolarizzazione occidentale colpevole di travisare completamente l’oggetto esposto.
Può la “messa in arte” snaturare completamente le opere che propone? La conoscenza edulcorata, è vero, dà parecchio fastidio. Ma i reperti in esposizione valgono assolutamente una visita, e anche il beneficio del dubbio.

Greta Travagliati

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venerdì 13 maggio 2011

CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

H O T E L C Y B E R N E T I C

Post n°212 pubblicato il 14 Maggio 2011 da BROWSERIK

Yotel è una catena di alberghi concepiti per chi è sempre in viaggio e ha giusto il tempo per farsi una doccia e schiacciare qualche ora di sonno prima di ripartire con il prossimo volo. L’idea è quella di avere nei pressi degli aeroporti e delle stazioni ferroviarie dei luoghi di sosta mordi e fuggi.

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Già presenti a Londra (Heathrow e Gatwick) e ad Amsterdam (Schiphol), gli Yotel si ispirano agli alberghi ad alveare giapponesi, dove le stanze sono dei futuristici e razionalissimi (e comodi?) loculi pensati per risparmiare quanto più spazio possibile; le camere degli Yotel non sono così anguste, ma comunque piccole e prive di finestre. Ma la vera novità della catena sta per nascere a New York (a giugno), questa volta non in aeroporto, ma ad appena due isolati da Times Square, nel cuore della Grande Mela. E gli spazi sembrano essere molto più confortevoli degli altri hotel: le camere tradizionali e quelli di lusso vanno da 15 a 30 metri quadri, caratterizzate da un design e un arredamento che sembrano presi dalla scenografia di 2001 Odissea nello spazio.

Sono tutte provviste di Wi-Fi e workstation, doccia monsonica e un Technowall con tv e impianto Hi-Fi. L’albergo funziona anche da luogo per rilassarsi e svagarsi, con il suo enorme terrazzo, da più di 300 metri quadrati, il bar, il ristorante in stile giapponese che ricorda il ring dei combattimenti di Sumo (dohyo), e la grande sala polifunzionale, dove fare yoga, feste, meeting. Fino a qui, verrebbe da pensare, niente di particolarmente originale.

Ciò che rende speciale lo Yotel di New York è che si tratta di un hotel robotizzato: appena entrati nella hall non c’è bisogno di suonare il campanello per farsi registrare dal concierge, ma si fa tutto da soli. Grazie a sportelli che sanno tanto di bancomat, in stile chek-in aeroportuale, ci si registra autonomamente a qualsiasi ora del giorno e della notte, sette giorni su sette, l’ideale per chi vuol mantenere un certo livello di riservatezza, magari per nascondere una piccante relazione, un po’ sullo stile dei love hotel giapponesi. Il vero salto nel futuro è dato dal cosiddetto Yobot, un robot a forma di braccio meccanico che acchiappa il vostro bagaglio e ve lo sistema in camera. Un po’ impersonale, ma almeno si risparmia sulle mance.

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WikiLeaks: multa di 14 milioni di euro a chi apre bocca - Wired.it

WikiLeaks: multa di 14 milioni di euro a chi apre bocca

C’è una cosa che accomuna Assange e il Pentagono: il timore della fuga di notizie. Per questo il primo fa firmare ai suoi collaboratori un accordo che prevede una salatissima multa. Il motivo? Puramente commerciale

13 maggio 2011 di Tiziana Moriconi

WikiLeaks

WikiLeaks

 

  • Scompare WikiLeaks

    WikiLeaks

    WikiLeaks

Confidentiality Agreement” è il titolo. Poi segue il testo di un contratto, che si fa subito interessante quando appare il nome di una delle due persone coinvolte: Julian Assange. Sarebbe un documento riservato, ma non essendo firmato ed essendo il nome del secondo firmatario opportunamente cancellato, New Statesman non ha commesso illecito, quando ieri ha deciso di renderlo pubblico.

Si tratta di un accordo di  non divulgazione che, a quanto pare, WikiLeaks chiede di firmare a coloro che vogliono avere accesso a parte del suo ghiotto database, ribadendo il concetto che le informazioni sono di sua esclusiva proprietà. Perché – si legge nel contratto – queste informazioni hanno, per loro natura, un elevato valore commerciale e l’uso improprio o la loro diffusione non autorizzata potrebbe causare a WikiLeaks dei danni considerevoli. Di immagine, certamente, ma soprattutto sotto forma di perdita di un’occasione: quella di vendere le informazioni, centellinandole, ad altri giornali, siti web, e così via.

Ovviamente i danni sono stati quantificati: 12 milioni di sterline (circa 14 milioni di euro) è la penale che dovrà pagare chiunque provochi una fuga di materiale inedito. Insomma, il trafugatore di informazioni per definizione si vuole tutelare contro gli altri rappresentanti della sua stessa specie. 

Ma, mentre Assange cerca di difendersi dai giornalisti, il Pentagono cerca di difendersi da Assange. Da mesi e mesi sta cercando il modo di proteggere le sue informazioni riservate, e ora anche il Congresso sta intervenendo e chiede che il lavoro sia finito in un anno e mezzo.

Si sta preparando un progetto di legge di autorizzazione, passato proprio ieri a un primo scrutinio il Committee on Armed Services della Camera, in cui si chiede che il Dipartimento della Difesa metta in atto un sistema di insider-detection, per individuare in tempo reale ogni acquisizione sospetta di un’informazione sensibile.

A tal fine, si renderebbe necessario un monitoraggio centralizzato per rilevare tutte le azioni non autorizzate che riguardino il trasferimento di dati. La Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) ha cominciato a preoccuparsi già la scorsa estate, lanciando un programma e mettendovi a capo la  star degli hacker Peiter Mudge Zatko. Il progetto si chiama Cyber Insider Threat (o Cinder) e l’intento è praticamente lo stesso del sistema di insider-detection che vorrebbe il Congresso. Anche in questo caso, si prevede di essere pronti per ottobre 2012.

E intanto? Al Pentagono si procede con misure restrittive da film di spionaggio: minacce al personale che consenta ai propri familiari di accedere a WikiLeaks, bando dei siti web che pubblichino informazioni provenienti dai cables. Queste misure sembrano però avere uno effetto boomerang.
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Facebook, la (debole) risposta all'accusa di infangare Google - Wired.it

Facebook, la (debole) risposta all'accusa di infangare Google

Ieri la notizia: il social network di Zuckerberg avrebbe assoldato giornalisti per screditare BigG. Oggi la risposta: si trattava solo di una verifica. Ma pochi ne sono convinti

13 maggio 2011 di Martina Saporiti

fb contro google

fb contro google

 

  • fb contro google

    fb contro google

    fb contro google

La Rete non ha memoria. Su questo sembra confidare  Facebook per far dimenticare ai suoi utenti, nonché al mondo dei media, l’ affare Burson-Marsteller: l’aver pagato la prestigiosa agenzia di pubbliche relazioni per convincere alcuni giornalisti americani a screditare Google adducendo presunte violazioni sulla privacy. Così, il geniale piano di Zuckerberg & Co. sarebbe quello di pubblicare una dichiarazione per calmare le acque e aspettare, aspettare, aspettare. In attesa che il prossimo acquisto, scandalo o novità riempia le pagine dei giornali. D’altra parte, si sa che gli utenti del Web sono clienti capricciosi e, quando si tratta di continuare a godere di un servizio (sia questo un social network o un motore di ricerca), diventano degli smemorati professionisti.

Certo è che la risposta di Facebook alle accuse lanciate non solo da prestigiosi quotidiani del calibro del NY Times o del LA Times, ma anche della stessa Burson-Marsteller, che quando ha visto che l’affare si stava mettendo male non ci ha pensato due volte e ha dato tutta la colpa al suo committente, lasca un po’ a desiderare. Eccola di seguito:

Nessuna campagna è stata pensata o autorizzata per gettare fango su Google. Volevamo solo verificare, attraverso terzi, che le informazioni racchiuse nei profili degli utenti di Facebook non venissero acquisite e utilizzate nel Social Circle di Google, cosa che Facebook non approva. Abbiamo incaricato Burson-Marsteller di indagare su questo, usando dati pubblici che possono essere verificati da qualsiasi media o analista. Dal momento che il problema è serio, abbiamo voluto affrontarlo nel modo più serio e trasparente possibile”.

A questo punto, come fa riflettere MG Siegler su Techcrunch, è lecito porsi qualche domanda. Per esempio: perché ingaggiare un’agenzia di pubbliche relazioni esterna e non usare la propria? Perché Burson-Marsteller non ha potuto fare il nome di Facebook quando i giornalisti gli hanno chiesto chi fosse dietro l’affare? Perché non fare tutto alla luce del sole, magari pubblicando un post per discutere del problema della privacy nei social network? Se Google è in torto, perché non querelarla? Ma visto che, come spiegato da Siegler, Facebook si è rifiutata di rispondere a tutte queste domande, si è costretti a farlo da soli.

Il sospetto è che Facebook volesse far uscire la notizia (quella della presunta violazione della privacy da parte di Google), senza però che la cosa fosse in qualche modo associata al suo nome. Forse per dar più credito alla faccenda, perché se il problema fosse stato sollevato direttamente da Zuckerberg,  tutti avrebbero pensato ad accuse senza fondamento, figlie solo di un’acerrima competizione sul Web. Ma alla fine questa strategia si è rivelata disastrosa: oggi, tutti i giornali parlano del fango, e tacciono sul (presunto) problema della privacy. Ma è vero che Facebook non è il primo colosso del Web a cadere nella trappola, altri gli fanno compagnia. Come dire, la storia non insegna nulla. Ma, come dicevamo, sul Web, la storia potrebbe avere la memoria corta.

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Marijuana e terapia del dolore: possibile in Italia? - Wired.it

Marijuana e terapia del dolore: possibile in Italia?

Negli Usa un altro stato ha legalizzato l'uso della cannabis per alleviare le sofferenze. E da noi invece com'è la situazione?

13 maggio 2011 di Valentina Arcovio

marijuana

marijuana

 

  • marijuana

    marijuana

    marijuana

 

Nel Delaware l'uso della  marijuana per scopi terapeutici non è più illegale. Il Senato dello stato americano ha infatti approvato a maggioranza schiacciante il disegno di legge sull'utilizzo medico della cannabis, cioè della sostanza che deriva dalla pianta di canapa.

Ora il provvedimento è stato inviato al Governatore Jack Markell che dovrebbe firmarlo presto. I senatori hanno approvato la legge con l'aggiunta di un emendamento che abbassa l' età minima dei pazienti che possono far uso della cannabis da 21 a 18 anni. Nonostante questo, si tratta di una delle leggi  più rigide che regolamenta l'uso della marijuana: dalla qualità della cannabis alla sua coltivazione e distribuzione. Negli Usa, 15 Stati, tra cui il New Jersey, hanno già leggi che legalizzano e regolamentano l'uso della marijuana per scopi terapeutici. A differenza degli altri stati, i malati del Delaware che otterranno la raccomandazione di un medico per l'uso della marijuana non avranno però il permesso di  coltivarla nel proprio giardino di casa ma potranno rifornirsi solo tramite dei centri appositamente autorizzati. Secondo la nuova legge, infatti, dovranno essere aperti dei dispensari, chiamati  centri di compassione, in cui si coltiva e viene distribuita legalmente la marijuana ai pazienti che hanno ottenuto l'autorizzazione del medico.

L'efficacia della cannabis come terapia contro il dolore è stata dimostrata da migliaia di studi condotti negli ultimi decenni. In alcuni casi la marijuana rappresenta l' unica soluzione per alleviare le sofferenze. La cannabis infatti arriva oltre i farmaci tradizionali. La lista delle malattie il cui dolore si può ridurre con la marijuana è lunga: dalla  sclerosi multipla a  nausea vomito nei pazienti con il  cancro sottoposti alla chemioterapia, fino alla  stimolazione dell'appetito nei casi di Aids. Non solo. La cannabis sembra essere efficace anche contro il glaucoma, i traumi cerebrali, gli ictus, la sindrome di Tourette, l'epilessia, l'artrite reumatoide e altre malattie ancora. A queste si aggiungono altre patologie (come le sindromi ansioso-depressive, le malattie auto-immuni e l'asma bronchiale) per le quali l'uso della marijuana è potenzialmente indicato.

Due sono i  principi attivi che renderebbero la cannabis un'ottima soluzione come terapia contro il dolore. Si tratta del delta-8-tetraidrocannabinolo e del delta-9-tetraidrocannabinolo che agiscono sul sistema nervoso centrale, inducendo il  rilassamento dei muscoli, e scatenando un' azione antinfiammatoria. Eppure, il timore che la marijuana possa causare  dipendenza e che possa essere usata come sostanza per sballarsi anziché per curarsi,  è il motivo principale per cui nel nostro paese sono previsti pesanti limiti al suo utilizzo per scopi medici. Per esempio, in Italia la coltivazione domestica della marijuana è illegale ed è punibile penalmente.

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Anche pesci e molluschi fanno sesso [foto] - Wired.it

Anche pesci e molluschi fanno sesso [foto]

Un libro della biologa marina Ellen Prager racconta tutte le abitudini di polpi, cavallucci marini e pesci pagliaccio. Eccone alcune in queste immagini

13 maggio 2011 di Martina Saporiti

Uova in bocca!

I maschi del pesce minatore proteggono le uova dai predatori tenendole in bocca. Periodicamente le sputano fuori per poi aspirarle nuovamente, così da aerarle. Ma usano la bocca anche per scavare tane nei fondali (Credits: Steven Kovacs)

 

  • Uova in bocca!

    Uova in bocca!

    I maschi del pesce minatore proteggono le uova dai predatori tenendole in bocca. Periodicamente le sputano fuori per poi aspirarle nuovamente, così da aerarle. Ma usano la bocca anche per scavare tane nei fondali (Credits: Steven Kovacs)

  • Il polpo martire

    Il polpo martire

    Questo rarissimo polpo con coperta è un martire della specie. Per accoppiarsi, infatti, si amputa il tentacolo su cui deposita lo sperma per poi passarlo alla femmina. Ma dopo muore (Credits: Steve Hamedl)

  • Vuoi fare sesso? Ti do un tentacolo

    Vuoi fare sesso? Ti do un tentacolo

    Il polpo maschio tende un tentacolo e passa lo sperma alla femmina, per fecondare poi le uova. Uova che hanno una madre ma molti padri, per assicurare variabilità genetica (Credits: Steven Kovacs/SeaPics.com)

  • Un accoppiamento… gustoso

    Un accoppiamento… gustoso

    I nudibranchi pagliaccio non si rilassano nemmeno mentre fanno sesso. Sono cannibali, e possono mangiarsi anche nell’accoppiamento. E si tengono gli organi riproduttivi per l’ultimo boccone (Credits: Diane Armstrong/SeaPics.com)

  • Una spirale di uova

    Una spirale di uova

    Il colore giallo di queste uova, così come l’appariscente livrea dei nudibranchi che le depongono, servono a tenere lontani i predatori. Tossine, spine e aculei non li rendono un buon pasto (Credits: Mark Strickland/SeaPics.com)

  • Le mille vite di un pene

    Le mille vite di un pene

    I maschi della conchiglia regina hanno peni lunghi metà corpo. Li spingono fuori verso le femmine, facendo attenzione ai granchi, pronti ad approfittarne. Ma niente paura, perso un pene, se ne fa un altro (Credits: Jerry Corsaut)

  • Un viscido cocoon di muco

    Un viscido cocoon di muco

    Questo pesce pappagallo è stato fotografato dopo aver secreto una bolla di muco intorno a sé. I ricercatori non sanno se serva a mascherare il suo odore, a tenere lontano i parassiti o se sia tossico (Credits: Doug Perrine/SeaPics.com)

  • L’abbraccio del calamaro

    L’abbraccio del calamaro

    Questi due calamari fanno sesso su un letto di uova, deposte in precedenza da altri animali del branco. Il maschio, più grande, sta abbracciando la femmina per trasferirle lo sperma (Credits: Mark Conlin/SeaPics.com) 

  • Il cavalluccio pigmeo

    Il cavalluccio pigmeo

    È lungo meno di 3 cm. Ha un’incredibile capacità di mimetizzarsi e, anche se ha microscopiche pinne, bocca da cavallo e occhi che ruotano indipendentemente l’uno dall’altro, è un pesce (Credits: Vickie Coker)

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Dal mollusco che rigenera il suo pene al polpo che si sacrifica in nome della riproduzione amputandosi un tentacolo. Queste e altre storie sono raccontate nel libro Sex, Drugs and Sea Slime, scritto dalla biologa marina Ellen Prager. “ Sono sempre stata affascinata dalle meravigliose storie sulla vita delle creature dei mariha detto la Prager a Wired.com – ma di solito nessuna di queste arriva al grande pubblico”. Da qui l’idea di scrivere il libro, spulciano nella letteratura e intervistando i colleghi alla ricerca di aneddoti, storie, testimonianze. L’obiettivo è far scoprire ai lettori tutte le meraviglie che si nascondono nelle profondità dei mari. Un prezioso tesoro minacciato dall’inquinamento, dal cambiamento climatico, dal sovrasfruttamento ittico e dall’invasione di specie aliene. Perché proteggerle? “ Perché abbiamo un sacco da imparare da loro in campo biomedico e biotecnologico – spiega la Prager – ma anche per un motivo prettamente economico”. Secondo la biologa, infatti, finché l’essere umano non imparerà a gestire le risorse ittiche praticando una pesca sostenibile, la popolazione mondiale dovrà affrontare sempre più problemi sociali, economici e di salute.

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Sul nome B.A.C.H. contrappunti con L'arte della fuga

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Home Teatro Musica Lavoro Arredamento Ricerca Case Ricerca Moto Ricerca Auto Login • Iscriviti • Anno 5 - Numero 20 Sul nome B.A.C.H. contrappunti con L'arte della fuga ▼LE RUBRICHE▼RECENSIONI ▼SERVIZI ▼CHI SIAMO Casting e Provini Recensioni sul Cinema Italiano Le Recensioni sui film italiani in programmazione nelle sale Cerca PRECEDENTE Sul nome B.A.C.H. contrappunti con L'arte della fuga Un viaggio da Eisenach a Lubecca, sulle tracce di Bach, dentro una delle opere più emblematiche e assolute. Film, Italia - Germania, 2008/2011 - Durata: 115’ Ideazione, regia e sceneggiatura di Francesco Leprino “Qualcosa di più di un film, un viaggio nel mondo di Bach, delle sue passioni, della sua musica”. Così è stato definito, durante la presentazione avvenuta a Milano alla Terrazza Martini, quest’ultimo lavoro musicale di Francesco Leprino, regista, musicologo e musicista che lavora non “con” ma “tra” immagine e musica. Una personalità amante della completezza dell’arte e che da anni insegue il sogno di abbattere i confini che racchiudono i fruitori delle diverse espressioni artistiche: coinvolgere gli appassionati di lirica nell’ascolto della musica concertistica, gli appassionati di arti visive nell’ascolto dei capolavori della musica. Coerente con la sua concezione di fruizione complessiva dell’arte, ha prodotto un film di difficile definizione. Non è una biografia del grande genio musicale, è molto di più: è il ripercorrere i suoi ultimi dieci anni di vita scavandone i moti più segreti dell’animo attraverso la sua ultima musica, il capolavoro incompiuto dell’Arte della Fuga, interpretando attraverso di esso l’evoluzione dell’animo di Bach, il suo percorso esistenziale, sempre più metafisico. Un’impresa per la quale si potrebbe adottare la definizione di Quirino Principe che, in una dichiarazione all’interno del film, sostiene che la musica di Bach “sembra essere fatta come qualcosa che abbia una sua superficie liscia, nella quale possiamo penetrare solo con la visione orizzontale e ammirarla nella sua sapienza. Poi, se invece riusciamo a penetrarvi, vediamo in essa tante scatole una dentro l’altra, in cui ci sono i segreti di fabbricazione”. Nel film di Leprino non vedremo i segreti di fabbricazione, ma i tanti apporti alla comprensione del grande genio e della sua opera attraverso tutte le componenti del suo mondo, personale e artistico. C’è la biografia, l’ambiente che lo vide nascere e vivere, ci sono i testimoni a lui contemporanei e il suo mondo degli affetti, i testimoni di oggi. Di lui, subito dopo la morte, parlerà il figlio Carl Philip Emanuel; poi il suo primo biografo, Forkel. Alla moglie Anna Magdalena il film dedica un cammeo mentre le testimonianze di oggi sono quelle di personalità di fama internazionale non solo nel mondo della musica. Riuniti in un ideale consesso con musicisti e musicologi troviamo anche Douglas Hofstadter, logico cognitivo, il filosofo Salvatore Natoli e il matematico Benedetto Scimeni, perché Bach fu un autore poliedrico e poliedrico è il suo “prodotto”. Il suo mondo musicale è un mondo di simmetrie, di gusto per i giochi e le combinazioni numerici. La sua opera viene composta su un piano logico-matematico, spirituale, esoterico, magico-numerico. Le sue sono partiture che si aprono a scatole cinesi, fruibili da grandi platee ma che si aprono anche a fruizioni più sofisticate. Di nuovo vengono alla mente le parole di Quirino Principe: la superficie liscia, ingannevolmente semplice da comprendere, sotto la quale si apre un mondo di incastri e di profondità. Nella fuga e nel contrappunto il soggetto musicale viene invertito, rispecchiato, guardato al contrario come in un ologramma. Il tema è lo stesso, ma viene visto, secondo il paragone di Leprino, “come in uno specchio spezzato, da diverse angolazioni”. Su Bach si sarebbe potuto fare un’opera sul filo della Passione secondo San Matteo, più dinamica, con un forte climax di passione. Una musica più facile da rendere in un film. Si è invece scelto la distillazione della sua musica, prendendo a filo conduttore un lavoro più difficile, quello degli ultimi anni di vita del compositore, che non comprende più il suo mondo che sta cambiando, se ne sente estraneo e si rifugia in una musica di ispirazione rinascimentale, una musica intesa come “ars”, arte combinatoria. Racchiudere il gigantesco genio di Bach in un film è una sfida persa in partenza. Meglio, secondo l’intento di Leprino, coglierne solo “la sua decantazione e la sua astrazione. L’arte della fuga, senza apparente destinazione strumentale e senza un nome … è lasciata incompiuta da Bach e costituisce, insieme alle ultime, per certi versi enigmatiche, opere … un cosciente testamento per il futuro, per l’eternità. .. E si può racchiudere in quel picciol vaso che è la lanterna magica del cinema, in cui possono trovare posto anche le tante vicende e i tanti luoghi vissuti da Bach”. Il filo rosso che collega luoghi, vicende, personaggi è la figura stessa di Bach, una figura fantasmatica, che appare e scompare lungo la narrazione, impersonata da Sandro Boccardi, l’ideatore della fortunatissima rassegna milanese “Musica e Poesia a San Maurizio”. Un viaggio non solo nella musica, ma nella stessa esperienza di vita di Bach attraverso un fluire di musica e di immagini, di voci e di luoghi che ci fanno partecipi della fantastica avventura esistenziale del grande genio. Questa è la proposta del film, che si potrebbe intitolare “Bach e i suoi fantasmi” : un rapporto dinamico tra la realtà e le sue ricezioni, a cominciare dal nome stesso: Bach era il suo nome di famiglia, ma B.A.C.H. era la sua firma musicale, risultato dell’insieme delle lettere che nell’usanza tedesca rappresentavano le note 'Si bemolle, La, Do, Si naturale', componendo un tema che Bach usò anche nel quarto soggetto della fuga finale (Contrapunctus XIV) dell’incompiuta Arte della fuga. Inserita il 12 - 05 - 11

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mercoledì 11 maggio 2011

CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

ROBOT SCHIZOFRENICO

Post n°209 pubblicato il 12 Maggio 2011 da BROWSERIK

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Qual è il sogno della robotica? Creare robot che assomiglino il più possibile agli esseri umani. Nelle sembianze, nell’intelligenza, nell’emotività. Volendo, anche nella suscettibilità ad alcune malattie.

Sulla rivista scientifica Biological Psychiatry, è apparso un articolo che racconta dell’ultimo successo delle neuroscience e dell’ informatica: un gruppo di ricercatori americani ha dato vita a un computer schizofrenico, che presenta gli stessi sintomi di un cervello umano affetto dallo stesso disturbo, cioè ha problemi di personalità e inventa storie irreali.

Secondo una delle teorie più accreditate per spiegare l’origine della schizofrenia, un cervello colpito da questa disfunzione è un cervello che apprende troppo. La causa di ciò è un rilascio esagerato del neurotrasmettitore dopamina, che non gli permetterebbe di discernere tra le numerose informazioni provenienti dall’esterno.

Il risultato è che ogni cosa diventa estremamente importante e quindi degna di essere memorizzata. Ma se ci sono troppe informazioni, è difficile stabilire tra loro connessioni coerenti. Da qui, la tendenza a inventare storie senza alcun senso logico. Per ricreare questo cortocircuito cerebrale in un computer, ricercatori dell’ Università del Texas ad Austin e della Yale University, negli Stati Uniti, hanno costruito Discern, una rete neurale artificiale capace di apprendere il linguaggio naturale.

Gli hanno quindi raccontato delle semplici storie, dandogli la possibilità di memorizzarle così come fa un cervello umano: creando connessioni statistiche tra parole e frasi. A questo punto, i ricercatori hanno modificato uno dei parametri che controllavano l’elaborazione dell’informazioni in modo da simulare un iper-apprendimento. In altre parole, hanno impedito al computer di dimenticare, così come accade in un cervello stimolato da troppa dopamina.

Cosa è successo? Che il computer ha cominciato a inventare storie improbabili, mostrando segni di megalomania.

In un caso, per esempio, ha rivendicato la paternità di un attentato terroristico. In un altro, ha risposto a una domanda relativa a uno specifico ricordo del passato in modo sconnesso, facendo improvvise digressioni e passando di continuo dalla prima alla terza persona. Come una persona schizofrenica, quindi. Se l’esperimento sembra provare che l’ipotesi dell’iper-apprendimento è corretta, i ricercatori non si sbilanciano e chiedono altro tempo per continuare le indagini.

Ma sono consapevoli della potenzialità delle reti neurali artificiali per lo studio del cervello umano. “ Il processamento delle informazioni nelle reti neurali artificiali è simile a quello che avviene nel cervello umano”, ha detto Uli Grasemann, uno degli autori. “ Quindi, è probabile che entrambi si rompano nello stesso modo. E dal momento che possiamo controllare meglio una rete artificiale di un uomo, speriamo che questo tipo di studi possa aiutare anche la ricerca clinica”.

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Il primo libro della storia (e non è la Bibbia) - Wired.it

Il primo libro della storia (e non è la Bibbia)

1143 anni fa viene stampato con una corteccia d'albero incisa il primo libro. Ancora prima di Gutenberg, ci sono i discorsi del Buddha

11 maggio 2011 di Caterina Visco

Il testo

Ecco il frontespizio del Sutra del Diamante (Credits: Corbis Art/Corbis)

 

  • Sutra

    Il testo

    Ecco il frontespizio del Sutra del Diamante (Credits: Corbis Art/Corbis)

  • Sutra

    Il rotolo

    Come appare il rotolo, conservato alla British Library (Credits: Werner Forman/Value Art/Corbis)

  • Sutra

    Dettaglio

    Un dettaglio del testo. La figura appartiene al secondo capitolo del Sutra   (Credits: Jingangjing.jpg/wikimedia commons)

  • Le grotte

    Le grotte

    Ecco come appaiono da lontano le grotte di Mogao vicino Dunhuang (Credits:Carl & Ann Purcell/Documentary Value/Corbis)

  • L'entrata

    L'entrata

    L'ingresso delle grotte di Mogao (Credits:Carl & Ann Purcell/Documentary Value/Corbis)

  • Balconata

    Balconata

    La particolare struttura che  spicca su tutte le grotte presenti nel complesso: una serie di balconi con tetto (Credits: Ric Ergenbright/Documentary Value/Corbis)

  • Affresco

    Affresco

    Nelle grotte/templi oltre ai manoscritti sono stati rinvenuti molti affreschi (Credits: PETER PARKS/Staff/AFP/Getty Images)

  • L'archeologo

    L'archeologo

    Aurel Stein in posa con il suo cane e il suo gruppo di esplorazione nel 1910 (Credits: User:PHG/Wikimedia Commons)

  • La British Library

    La British Library

    Qui è conservato il rotolo del Sutra del Diamante (Credits: Pawel Libera/Encyclopedia/Corbis)

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Aveva attraversato il Pakistan, ed era giunto in Cina attraverso il gelido Corridoio del Vacan. Aveva fatto base presso il consolato britannico di Kashgar e da lì aveva cominciato la sua spedizione verso il nord ovest del paese, nella regione del Gansu. Ora insieme al cane Dash (III o IV, non ha importanza, tanto li chiamava sempre allo stesso modo), Aurel Stain percorreva la parte settentrionale della Via della Seta. Ebreo, ungherese di nascita, battezzato luterano e con la cittadinanza britannica, Stein era uno dei maggiori esperti di arte e cultura orientale; conosceva perfettamente il Sanscrito e questa era la sua seconda spedizione archeologica in Cina.

Stein aveva appena superato Dunhuang e si muoveva in direzione sud-est, verso la sua meta: le grotte di Mogao, scoperte solo pochi anni prima, immerse nella sabbia e protette dall'auto-nominatosi custode Wáng Yuánlù, eremita taoista. Queste caverne sono in realtà un complesso sistema di quasi 500 templi scavati direttamente nella roccia, conosciuti anche come i Templi dei mille Buddha, anche se in realtà le statue dell'Illuminato che vi sono conservate sono oltre duemila.

Grazie alla sua parlantina e all'aiuto di qualche sterlina, l'archeologo britannico ottenne il permesso di entrare nei templi per esplorarli. Qui trovò qualcosa che non immaginava neanche nei suoi sogni più audaci: non solo bellissime statue e monumenti, non solo affreschi della dinastia Tang colorati e raffinati, ma anche migliaia di rotoli di carta e seta risalenti a diversi secoli prima (all'incirca tra il 400 e il 1000 d. C.). Stein ne prese qualcuno tra le mani, soffiò via delicatamente la sabbia dalla superficie e cominciò a studiarli. Alcuni erano praticamente in brandelli, in altri il segno delle pennellate era quasi sbiadito, altri ancora erano invece ben conservati. Molti erano sutra, trascrizione di discorsi del Siddartha Gautama o Gautama Buddha, e cominciavano tutti allo stesso modo: “ evaṃ mayā śrutam” (एवं मया श्रुतम् ), “ Così ho udito”. Stein non ci pensò due volte, si precipitò dal custode e dietro pagamento di una lauta mancia riuscì a portarsi via oltre settemila rotoli e svariati dipinti. Partì subito per fare ritorno verso l'Inghilterra, destinazione finale il British Museum.

Arrivare in Europa non fu semplice, e durante il ritorno Aurel fu costretto a farsi amputare le dita del piede destro, completamente congelate. La sofferenza fu ripagata, una volta giunto al museo, da un'altra incredibile sorpresa. Uno dei rotoli era decisamente in condizioni migliori degli altri e i segni erano più nitidi e puliti. E non era un caso: era stato realizzato con l'impronta di un corteccia d'albero, incisa all'inverso, immersa nell'inchiostro e impressa sulla carta.

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Facebook, perdita di dati da milioni di profili - Wired.it

Facebook, perdita di dati da milioni di profili

Informazioni, foto e messaggi a disposizione di terzi. La causa in una falla nel sistema di protezione che riguarda le applicazioni. La denuncia di Symantec

11 maggio 2011 di Giovanna Dall'Ongaro

Facebook, perdita di dati da milioni di profili

Facebook, perdita di dati da milioni di profili

 

  • Facebook, perdita di dati da milioni di profili

    Facebook, perdita di dati da milioni di profili

    Facebook, perdita di dati da milioni di profili

Facebook nuovamente sotto accusa. Non è passato neanche un anno da quando il Wall Street Journal aveva rimproverato il social network per la disinvoltura con cui trattava le informazioni personali dei suoi iscritti, che la società di sicurezza informatica Symantec scopre nuove fughe di dati. E le denuncia sul suo blog ufficiale.

Milioni di profili, fotografie, chat, sarebbero stati accessibili negli ultimi anni, secondo il rapporto Symantec, a soggetti terzi tra cui agenzie di pubblicità, che avrebbero avuto anche l’opportunità di postare messaggi.

Colpa delle applicazioni colabrodo utilizzate senza le dovute cautele dalla piattaforma di Mark Zuckerberg che vanta oltre 500 milioni di utenti, sostiene Nishant Doshi, il ricercatore di Symantec che ha firmato il  J’accuse: “ Si stima che ad aprile 2011 erano circa 100mila le applicazioni che provocavano questa perdita di dati. Negli anni, centinaia di migliaia di applicazioni potrebbero avere inavvertitamente permesso milioni di accessi a soggetti terzi”.  

L’entità del danno è però ancora da valutare. Non si sa infatti in quanti abbiano approfittato di questo regalo inaspettato e nelle mani di chi siano finite quelle chiavi che le applicazioni Facebook usano per eseguire determinate azioni per conto dell’utente.

Forse molti hanno ignorato la possibilità di accedere al prezioso tesoro di informazioni. Oppure, come afferma il portavoce di Facebook Malorie Lucich, si sono virtuosamente attenuti agli obblighi contrattuali che gli impediscono di utilizzare e diffondere le informazioni degli utenti del network.

Facebook, comunque, sostiene di avere già rimosso le Api (Application Programming Interface) incriminate. La falla è chiusa, assicura la portavoce. C’è da fidarsi? Gli scettici, suggerisce il ricercatore di Symantec, farebbero meglio a cambiare le password di accesso.

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La surreale ironia di Brock Davis [foto] - Wired.it

La surreale ironia di Brock Davis

Ironico, sfrontato, matto. Le opere di un geniale designer americano

11 maggio 2011 di Alessio Lana

The literal java jacket

Java jacket in inglese è il cartoncino isolante usato intorno ai bicchieri di caffé ma anche una giacca. E il gioco di parole è servito. (Photo Credits: Brock Davis)

 

  • The literal java jacket

    The literal java jacket

    Java jacket in inglese è il cartoncino isolante usato intorno ai bicchieri di caffé ma anche una giacca. E il gioco di parole è servito. (Photo Credits: Brock Davis)

  • Dark Side of the Doritos

    Dark Side of the Doritos

    Versione rivista e gastronomicamente corretta del più noto album dei Pink Floyd.
    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Rice Krispyhenge

    Rice Krispyhenge

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Illustrazione per il New York Times

    Illustrazione per il New York Times

    E pensare che l'articolo in cui è stata pubblicata parlava di green economy...
    (Photo Credits: Brock Davis)

  • La musica pirata

    La musica pirata

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Prese elettriche

    Prese elettriche

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Un quaderno fuori dalle righe...

    Un quaderno fuori dalle righe...

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Distracted

    Distracted

    Anche i libri scientifici hanno bisogno di relax...
    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Luke Toastwalker

    Luke Toastwalker

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Family Portrait

    Family Portrait

    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Spaghetti western

    Spaghetti western

    Dopotutto il nostro è uno stivale, no?
    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Morning surf

    Morning surf

    Questa sì è colazione equilibrata...
    (Photo Credits: Brock Davis)

  • Assault rifle Christmas cookies

    Assault rifle Christmas cookies

    Un designer in cucina...
    (Photo Credits: Brock Davis)

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" Ho iniziato a dipingere fin da quando ero piccolo. Guardavo mia madre disegnare e da lì ho preso il via". A parlare è Brock Davis, designer americano e direttore creativo di un'agenzia pubblicitaria di Minneapolis.

Da oltre venti anni racconta un mondo diverso dal nostro, fatto di illustrazioni, oggetti e collage che giocano con la banalità del nostro quotidiano rendelo straordinario.

Davis scatena sorrisi e ci stupisce come fanno Thomas Heatherwick, Stefan Sagmeister e Kasimir Malevich, i suoi numi tutelari,  che hanno fatto breccia nel grande pubblico proprio sorprendendolo.

Nonostante sia entrato nel giro della pubblicità, Davis riesce ancora a creare opere per divertimento, senza fini di lucro, per così dire. Certo, molte di queste si trasformano in magliette, tele, stampe. Un piccolo prezzo da pagare se si vuol continuare a fare ciò che pare e piace.

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