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Bellissima animazione tecnica sul Kers
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Anoressia nervosa, pericolo sul Web
Blog e siti internet promuovono questo disturbo alimentare, insegnando a diventare anoressici. Ecco come
18 marzo 2011 di Fabiola de Clercqanoressia
anoressia
Ana è la personificazione dell' anoressia nervosa ed è la protagonista dei racconti di moltissimi blog pro-ana. La autrici di questi diari segreti on line parlano di Ana come di un'amica molto cara, la difendono se viene attaccata dagli estranei e si ispirano a lei come ad un modello di bellezza perfetto.
Ana in realtà è una malattia che può portare alla morte e questi blog sono pericolosissimi perché contengono le istruzioni per diventare anoressiche e le autrici si spalleggiano tra loro per arrivare all'obiettivo della perdita di peso.
Insegnano a vomitare, consigliano lassativi e diuretici, esortano e ammirano chi è capace di rifiutare il cibo, insultano chiunque faccia loro notare che Ana è una malattia da curare. Il problema è che questi siti sono alla portata di tutti, soprattutto delle adolescenti disorientate che cercano una risposta ai loro piccoli problemi dati dall'età.
Rebecka Peebles della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora ha monitorato 180 blog pro-ana e lancia un nuovo allarme.La ricerca, pubblicata sull' American Journal of Public Health, ha trovato nei diari pro-ana una miniera di pericoli di facile accesso a chiunque si colleghi a internet: l'80% dei siti pro-ana è dotato di applicazioni interattive (come i contatori di calorie), l'85% pubblica foto di donne scheletriche a cui ispirarsi (chiamati thinspiration), l'83% dà consigli per dimagrire velocemente e su come impegnarsi nell'obiettivo di avere il totale controllo del proprio corpo per arrivare a 45 chili o meno. Il 24% dei siti è stato bollato come molto pericoloso per i lettori.
Questi blog però devono essere considerati anche come delle urla di aiuto: 'Per molte pazienti internet diventa un modo per esprimere i propri sentimenti - concludono gli autori - invece di gestirli attraverso tradizionali modelli di cura come la psicoterapia''.
È necessario spiegare alle giovanissime che non è nella magrezza che si trova la perfezione, in modo da promuovere un canone estetico in cui la salute sia parte integrante della bellezza.
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Post n°153 pubblicato il 19 Marzo 2011 da BROWSERIKl futuro della robotica è morbido. Nei laboratori di biomimetica dell’ Auckland Bioengineering Institute, in Nuova Zelanda, un gruppo di ricerca ha costruito un motore senza utilizzare ingranaggi, pistoni o cuscinetti. I ricercatori sono riusciti a eliminare tutti i componenti rigidi grazie all’impiego di muscoli artificiali flessibili, che donano al motore in movimento l’aspetto di una gelatina traballante. L'ideale per un robot.
Iain Anderson, capo ricerca del laboratorio, spiega su New Scientist come funziona il motore. Chiave del meccanismo sono i muscoli artificiali, cioè strutture costituite da due strati di carbonio che conducono elettricità, separati da una sottile pellicola di polimero isolante estremamente flessibile.
Quando viene applicato un voltaggio, le cariche elettriche di segno opposto si accumulano ai due lati del polimero isolante. In questo modo, a causa delle forze di attrazione che si esercitano tra cariche positive e negative, il film che separa gli strati di carbonio viene schiacciato, riuscendo a estendersi anche del 300 per cento. Quando il voltaggio cessa, il film si rilassa e torna alla sua forma originaria.
Questi muscoli artificiali sono montati su una struttura simile alla ruota di una bicicletta, come fossero dei raggi piatti che si estendono tra l’estremità della ruota e un anello centrale fatto di una sostanza spumosa. Grazie all’applicazione del voltaggio, i raggi si comprimono e rilassano di continuo dando origine a un movimento di rotazione.
Per la verità, ammette Anderson, non è la prima volta che muscoli artificiali vengono usati per generare un moto rotatorio, ma il nuovo motore è il primo a fare a meno di un qualsiasi elemento rigido. Le potenzialità sono enormi. Chris Melhuish, direttore del Bristol Robotics Laboratory in Gran Bretagna, parla di nuove frontiere della robotica. Grazie all’innovativo motore, infatti, sarà possibile costruire robot che si muovono come un essere vivente e saranno così morbidi da ricordare in tutto e per tutto la pelle umana. Non solo. Possibili applicazioni sono anche nella chirurgia estetica, dove il motore potrebbe servire a costruire strumenti così flessibili da essere inseriti persino dentro piccolissime incisioni, ma comunque efficaci a svolgere il lavoro di normali strumenti meccanici rigidi.
L’appuntamento per gli appassionati di questo campo è alla Electroactive Polymer Actuators and Devices Conference che si terrà questa settimana a San Diego (Usa). Qui, Anderson e il suo gruppo di ricerca presenteranno il loro motore. C’è attesa anche per la presenza dell’azienda californiana Artificial Muscle, impegnata nello sviluppo di motori costruiti con polimeri elettro-attivi che si comportano come interfacce aptiche, cioè sensibili al tatto.
Questi dispositivi potrebbero presto trovarsi su telefonini, touchscreens e mouse di computer. Il primo di questi motori è stato disegnato per l’iPhone e sarà in vendita a maggio. I produttori garantiscono prestazioni più veloci e un range di frequenze molto più esteso rispetto a un motore tradizionale.
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Giappone, una settimana dopo lo tsunami (visto da satellite)
Google pubblica nuove immagini del paese stravolto dal terremoto
18 marzo 2011 di Wired.it StaffKesennuma nel 2002
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Kesennuma nel 2002
Kesennuma dopo il terremoto
Kesennuma dopo il terremoto
Kesennuma dopo il terremoto
Kesennuma nel 2002
Kesennuma, dopo il terremoto
Kesennuma nel 2002
Kesennuma dopo il terremoto
Kesennuma nel 2002
Kesennuma dopo il terremoto
Kesennuma nel 2002
Kesennuma dopo il terremoto
Minamisanriku nel 2002
Minamisanriku dopo il terremoto
Minamisanriku nel 2002
Minamisanriku dopo il terremoto
Minamisanriku nel 2002
Minamisanriku dopo il terremoto
Minamisanriku nel 2002
Minamisanriku dopo il terremoto
Odohama nel 2005
Odohama nel 2005
Ofunato nel 2005
Ofunato dopo il terremoto
Ofunato nel 2005
Ofunato dopo il terremoto
Rikuzentakata nel 2005
Rikuzentakata dopo il terremoto
Rikuzentakata nel 2005
Rikuzentakata dopo il terremoto
Shinchi nel 2005
Shinchi dopo il terremoto
Shinchi nel 2005
Shinchi dopo il terremoto
Soma nel 2005
Soma dopo il terremoto
Watari nel 2005
Watari dopo il terremoto
Watari nel 2005
Watari dopo il terremoto
Yamamoto nel 2005
Yamamoto dopo il terremoto
Yamamoto nel 2005
Yamamoto dopo il terremoto
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Una settimana dopo il Giappone è ancora in ginocchio. Migliaia di morti, centri abitati devastati e un incubo nucleare che non sembra destinato a rimanere solo un brutto sogno. A sette giorni dallo tsunami è impossibile fare ancora oggi una stima dei danni, delle perdite di vite umane e di quanto ci vorrà per rimettere in piedi una della prime economie al mondo. In questa "impietosa" gallery satellitare Google mostra come il Giappone è stato stravolto dalla natura.
Le immagini hanno tutte copyright: Google, DigitalGlobe.
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Breve storia dei titoli dei film
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Chunkothy è stato diretto ed animato daCelyn Brazier a Nexus per la Ninja Tune con la consulenza di produzione di Beccy McCray . Bali Engel con l'aiuto a ai colori ed alle sequenze animate degli insetti e dei pesci. Margot Tsakiri-Scanatovits e Manav Dhir anche fornito le competenze e hanno contribuito a colorare l'animazione degli insetti. Steve McInerney costruito il montaggio finale con perfetto tempismo e fantasia.
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"Ciao. L'idea dietro questo shortflick era di dare allo spettatore una visione surreale nella mente del professionista in discesa sketer Erik Lundberg. Egli inizia la sua giornata in Encinitas in California. Dopo una prima colazione nutriente egli inizia un viaggio sulla sua moto alla ricerca di una collina dove può essere libero e lanciarsi nello sketing prima del tramonto. Mentre scruta la collina gli ritorna in mente l'incidente occorsogli durante la finale di Mischo Erban in Brasile che gli è costato la perdita della gamba
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Le idee, le icone, i fenomeni, i prodotti, i marchi, gli stili, i segni, le storie e tutto quello che si afferma e si propaga nell’immaginario sociale e mediale contemporaneo – in cui tutti siamo immersi – altro non è che un meme forte. Il meme è l’unità minima di trasmissione culturale che si diffonde per contagio virale e si replica per imitazione. Francesco Ianneo, epistemologo studioso di Memetica, dice: “Mangiamo memi, compriamo memi, ci comunichiamo a vicenda memi (…) è un fenomeno o prodotto memetico un gruppo di memi materializzato in un oggetto hi-tech, un indumento, un cosmetico (…)”. Fare Trendwatching significa intercettare sul nascere i memi circolanti, i segnali deboli di un cambiamento, che cominciano a prendere piede e a influire sui comportamenti sociali, sugli stili di vita e conseguentemente sulle abitudini di consumo. Il mondo – la vita on e off-line – è un grande contenitore, una variegata bacheca che dispiega significati non univoci, spesso contraddittori e in ordine sparso. Compito del trendwacther è osservare e individuare fenomeni, presenze visive, emergenze del percepibile, artefatti, che rappresentino una discontinuità – portatrice di significatività e densità semantica – e trovare fra essi delle connessioni, porli in relazione l’uno con l’altro. Come un detective della real life, il trendwatcher raccoglie evidenze, frammenti che assumono significato solo se opportunamente interpretati e contestualizzati. Una “tendenza” nasce quando segnali e spunti di senso non organici, selezionati e ricombinati, appaiono riconducibili a un comune denominatore simbolico-valoriale. Una tendenza estetica o espressiva è, in pratica, un aggregato di memi. La capacità che il trendwatcher usa per rilevare tendenze è quella di pattern recognition di gibsoniana memoria, che consiste nel “saper riconoscere i modelli”, ovvero nel distillare, nella molteplicità di segnali che la circondano, la struttura immateriale che li accomuna e che permette di riprodurli. Sempre citando William Gibson, il futuro altro non è che il nostro estremamente mutevole presente. Cercare di prevederlo ha poco senso. L’unica cosa che possiamo fare è capire “la direzione che le cose hanno già preso”. Perciò, cominciamo a unire i puntini.
Pattern Recognition from MEMEThIC LAB. on Vimeo.
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Post n°151 pubblicato il 18 Marzo 2011 da BROWSERIKUniti per il no al nucleare. Se c’è un tema, dopo la Nazionale, che unisce la maggior parte degli italiani, è senza dubbio quello del no al nucleare. E dopo quasi 25 anni dall’ incidente di Chernobyl, che segnò in maniera determinante l’uscita dal settore del nostro paese, ora un nuovo incidente, quello delle centrali nucleari di Fukushima, alla vigilia di un nuovo referendum indetto proprio per contrastare il ritorno al nucleare del nostro paese fortemente sostenuto dal Governo Berlusconi, rischia di mettere la pietra tombale sull’atomo “Made in Italy”.
Eppure negli ultimi anni, nonostante l’abbandono del settore e la chiusura delle centarli qualcosa è rimasto a covare sotto la cenere. A mantenere caldo il cuore atomico del paese sono state essenzialmente le università e quegli studenti, che negli ultimi venti anni, nonostante il blocco hanno continuato a iscriversi alle facoltà di ingegneria nucleare.
Qualcuno di loro poi è tornato anche a essere assunto da società italiane, come per esempio l’Enel che il loro ritorno al nucleare, anche se a livello internazionale, lo hanno fatto già da un pezzo.
“Fa piacere", racconta Giuseppe Forasassi, presidente del Cirten, il consorzio di università che si occupano di ingegneria nucleare, "che questi ragazzi vengano assunti per costruire centrali nucleari. Finora era difficile per un neoingegnere nucleare trovare un impiego nel settore in Italia. Quello che è successo all’Enel è un segnale di speranza dopo venti anni di ostracismo da parte di tutto il paese”.
La scelta di tornare al nucleare ha fatto rifiorire, almeno in parte il Rinascimento Nucleare anche nel nostro paese. Per un po’ anche i sondaggi indicavano che la percentuale di italiani favorevole alla riapertura delle centrali era almeno pari a quella dei contrari. Un dato davvero storico se si confronta con le percentuali bulgare del no all’atomo segnato da sempre sa tutti gli indicatori.
In questi venticinque anni, da Chernobyl a oggi, nelle università italiane non si è perso il treno della ricerca e gruppi di ingegneri e di ricercatori sono inseriti all’interno dei principali programmi di sviluppo delle piattaforme nucleari in fase di sviluppo ( i reattori di terza generazione avanzata e in quelli di quarta), in quelli puramente sperimentali, come per esempio i progetti che riguardano la fusione nucleare, e in quelli che sono pronti a entrare in fase operativa, come per esempio i reattori di terza generazione, che se, dovesse passare il no al referendum, dovrebbero essere istallati in Italia. Particolarmente attiva la pattuglia di neoingegneri che sta lavorando sui reattori di terza generazione: l’Epr francese e Ap 1000 nippo-americano. Si tratta di reattori che sono stati sviluppati anche con il concorso di ricercatori e di imprese italiane.
Per esempio l’Ap 1000 è stato in parte collaudato presso gli impianti della Siet di Piacenza, una società che fa capo a Enea, mentre Ansaldo participa attivamente alla realizzazione dei primi impianti in Cina con un contributo particolare, proprio in merito ai nuovi sistemi di sicurezza passiva del nuovo reattore.
Ma è sul fronte dei reattori di terza generazione avanzata e in quelli di quarta che i ricercatori italiani sono più attivi. Soprattutto perché in questo ambito hanno potuto lavorare sfruttando i finanziamenti europei destinati allo sviluppo di queste tecnologie. Sono 6 tipologie di reattori (a gas ad alta temperatura, a sodio, a piombo, a sali fusi, ad acqua supercritica e a gas veloce) che dovrebbero dare risposte decisive in termini di sicurezza, economicità, non proliferazione (dovrebbero rendere molto difficoltosa l'estrazione del Plutonio) e combustibile: sono soprattutto reattori a neutroni veloci, che produrranno più combustibile rispetto a quello che bruciano e che potranno anche bruciare i rifiuti nucleari, riducendo molto la vita degli stessi e la loro pericolosità. “Alcuni di questi potranno anche essere utilizzati per produrre idrogeno”, spiega Marco Ricotti, ingegnere del Politecnico di Milano. Si tratta però di impianti che per il momento stanno solo sulla carta e che sono ben al di là dall’essere realizzati ma che intanto vengo studiati e sviluppati anche nel nostro paese.
Se però dal Giappone dovessero continuare ad arrivare notizie allarmanti allora il destino di questi programmi appare segnato, nonostante la voglia del Governo di tornare all’atomo, e il desiderio dei ricercatori di lavorare in Italia.
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