mercoledì 21 settembre 2011

CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

Transistor protonici come interfaccia uomo-macchina

Post n°235 pubblicato il 22 Settembre 2011 da BROWSERIK

lopIn pressoché tutti i dispositivi messi a punto dall'uomo, la comunicazione delle informazioni si basa sul trasporto di elettroni. Negli organismi viventi, questo compito è invece svolto o da ioni o da protoni: sono questi ad aprire e a chiudere i canali nella membrana cellulare per innescare i processi di "pompaggio" verso l'interno e l'esterno della cellula. Ora un gruppo di ricercatori dell'Università di Washington è riuscito a mettere a punto un transistor che utilizza anch'esso protoni, creando un elemento chiave per la progettazione di dispositivi che possano comunicare direttamente con un organismo vivente.

I dispositivi per interfacciare il corpo umano e le più diverse apparecchiature sono studiati da molto tempo, ma "c'è sempre questo problema, una sfida, a livello di interfaccia: come fa un segnale elettronico a tradursi in un segnale ionico, o viceversa?" ha osservato Marco Rolandi, che con i colleghi firma un articolo pubblicato sulla rivista Nature Communications. "Abbiamo trovato un biomateriale che è molto efficiente nel condurre protoni, e permette di interfacciarsi con i sistemi viventi."

Il dispositivo utilizza una forma modificata del composto chitosano, originariamente estratto dal gladio di calamaro, una struttura vestigiale di quando i calamari possedevano una conchiglia. Il materiale è biocompatibile, è facilmente producibile e può essere riciclato da gusci di granchio e di gladi di calamari scartati dall'industria alimentare. Il chitosano assorbe l'acqua e forma legami a idrogeno; in tal modo molti protoni sono in grado di saltare da un legame idrogeno a quello successivo.

Il prototipo messo a punto dai ricercatori è un transistor a effetto di campo, delle dimensioni di 5 micron, circa un ventesimo della larghezza di un capello umano. "Nel nostro dispositivo grandi molecole ispirate alle strutture biologiche possono condurre protoni, e una corrente di protoni può essere accesa e spenta, in un modo che è del tutto analogo a una corrente elettronica di qualsiasi altro transistor a effetto di campo", ha detto Rolandi.

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domenica 18 settembre 2011

L_ottimismo è in un gene, ma si può imparare | Le Scienze

Psicologie e scienze cognitive

Sui PNAS

L'ottimismo è in un gene, ma si può imparare


Ottimismo, autostima e senso di controllo sulla propria vita sono correlati, almerno in prima battuta, con il tipo di variante posseduta del gene per un recettore dell'ossitocina

Un gene strettamente collegato a tratti della personalità come l'ottimismo, l'autostima e il senso di controllo sulla propria vita è stato identificato da un gruppo di ricercatori dell'università della California a Los Angeles, che ne danno conto in un articolo pubblicato in anteprima on line sul sito dei Proceedings of the National Academy of Sciences.

"Sono alla ricerca di questo gene da alcuni anni, e non è il gene che mi aspettavo",ha osservato Shelley E. Taylor, che ha diretto lo studio. "Sapevo che ci doveva essere un gene per queste risorse psicologiche."

Il gene in questione codifica un recettore dell'ossitocina (OXTR) - un ormone che aumenta in risposta a stress ed è associato a buone abilità sociali - e in una specifica posizione può resentarsi in due versioni: una variante "A" (adenina) e una variante "G" (guanina). Diversi studi hanno suggerito che le persone con almeno una variante "A" abbiano una maggiore sensibilità allo stress, capacità sociali più povere e un maggior rischio di problemi di salute mentale.

I ricercatori sono ora riusciti ad appurare che le persone che in quella specifica posizione possiedono due "A" o una "A" e una "G" hanno livelli notevolmente più bassi di ottimismo, autostima e senso di padronanza del proprio destino rispetto alle persone con due "G".

"A volte le persone sono scettiche sul fatto che i geni possano far prevedere qualsiasi tipo di comportamento o lo stato psicologico. Penso che abbiamo dimostrato in modo conclusivo che lo fanno", ha detto la Taylor, che ha però sottolineato che ciò non significa affatto che lo determinino.

"Alcune persone pensano che i geni siano il destino, che se si ha un gene specifico, allora si avrà un esito particolare. Non è assolutamente così. Questo gene è un fattore che influenza le risorse psicologiche e la depressione, ma c'è molto spazio per i fattori ambientali. Un buon sostegno durante l'infanzia, buone relazioni, amici e anche altri geni hanno tutti un ruolo nello sviluppo delle risorse psicologiche, e questi fattori svolgono un ruolo molto importante se le persone diventano depresse."

Inoltre, ha aggiunto la Taylor, "più geni si studiano, più ci si rende conto che molti fattori influenzano la loro espressione."

"L'espressione dei geni non è sempre stabile", spiega Shimon Saphire-Bernstein, primo firmatario dell'articolo. "Per caratteristiche fisiche come il colore degli occhi lo è, ma per la depressione potrebbe cambiare nel giro di una settimana. I geni sono solo uno di una serie di fattori che contribuiscono al comportamento, alla malattia e a disturbi come depressione ".

Anche le persone con la variante "A" sono in grado di superare la depressione e gestire lo stress: "Non abbiamo trovato nulla - ha detto la Taylor - che interferisca con l'apprendimento delle competenze di coping", ossia con la possibilità di trarre vantaggio dalle tecniche psicoterapeutiche per avere un atteggiamento più ottimista, avere maggiore autostima e un più alto senso delle proprie capacità di affrontare eventi stressanti.

"All'inizio - ha scritto la Taylor - ritenevo che la biologia determinasse gran parte del comportamento; è stata così una sorpresa vedere come le relazioni sociali potessero chiaramente forgiare la nostra biologia di base, anche a livello di espressione genica". (gg)

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