martedì 5 luglio 2011

C’era una volta l’orologio svizzero, I : Artribune

C’era una volta l’orologio svizzero, I

L’incredibile storia di un orologio diventato icona. La costruzione di un impero commerciale, edificato sulle ceneri di una tradizione ormai sbiadita. Il rapporto, antico e saldo, con l’arte contemporanea. Tutto questo, e molto altro, è Swatch, un piccolo oggetto di plastica che ha cambiato il concetto d’orologio. Ma soprattutto, la vecchia maniera di fare impresa. Partner della 54. Biennale di Venezia, Swatch non smette di cambiare pelle. Restando, saggiamente, quel che è. Un evergreen a buon mercato, esclusivo ma democratico. La prima parte di un pop-saggio firmato Helga Marsala.

Scritto da Redazione | lunedì, 4 luglio 2011 · Lascia un commento 

Swatch Colour Codes

Per quelli che negli anni ‘80 erano ragazzini, il mitico orologio di plastica, coloratissimo e supertrendy, è un simbolo generazionale. Un cult. Accessibile oggetto del desiderio, lo Swatch era figlio di una passione per il fashion a portata di tasche, in un’epoca in cui la fissa per le griffe prendeva velocemente campo, soprattutto fra i teenager.
Impossibile non averne avuto almeno uno nella vita.  Chi possedeva quegli affarini digitali a cristalli liquidi, molto cheap e un poco tristi, o certi modelli classici con cinturini in pelle, era decisamente out. L’orologio giovane e figo aveva un nome solo, inconfondibile.
Il boom di Swatch è stato qualcosa di epocale, un clamoroso esempio di branding intelligente, in tempi in cui di new economy non si parlava ancora. Una vicenda, quella della casa d’orologi svizzera, che è entrata nei manuali di storia dell’economia, esemplare caso di rivoluzionaria inversione di rotta aziendale.

Lo Swatch firmato Keith Haring

Era l’ultimo scorcio degli anni ‘70 quando un’entusiasmante avventura imprenditoriale cominciava a bollire in pentola. Fino ad allora le cose stavano più o meno così: dicevi orologio svizzero e pensavi a un oggetto prezioso, costoso, infallibile, fatto per durare una vita. Il prodotto di una manifattura raffinata e di una tecnologia antica: congegni meccanici lillipuziani, design classico e autorevole. Un buon orologio, soprattutto se di marca svizzera, rappresentava un discreto investimento, oltre che uno status symbol. Roba per intenditori, danarosi ed esigenti.
È in quel momento, però, che le cose prendono una piega inattesa. I mercati asiatici si lanciano nella loro lenta scalata verso il successo, trasformandosi in temibile concorrenza. Dal Sol Levante arrivano nuovi prodotti, più dozzinali ma più economici. In pochi anni la quota di mercato svizzero passa da un buon 50% a un debolissimo 15%, mentre i posti di lavoro nelle aziende specializzate si riducono da 90mila a meno di 25mila. Il settore sta franando.

Nicolas G. Hayek

Fenomeno Hayek. La svolta
Ma là dove si apre la voragine di una crisi, prima o poi arriva l’idea che fa la differenza. L’uomo della svolta si chiama Nicolas G. Hayek, un nome che ha cambiato il volto di un intero segmento di mercato elvetico. E come nella maggior parte dei casi, a determinare il cambiamento non è, banalmente, una manovra economica, ma un concetto, una strategia culturale. La creazione di un lifestyle.
La nuova creatura sarà un Second watch, l’altro orologio. Ovvero uno Swatch. Che cosa s’inventa Hayek? Che cosa spostano le sue idee, rispetto a una gloriosa seppur ormai zoppicante tradizione? La novità è semplice: l’orologio non è più un gioiello da esibire sopra il polsino o da custodire in cassaforte; non è più un fidato compagno da tramandare di generazione in generazione. L’orologio diventa un vezzo, un delizioso accessorio intercambiabile, un optional da accordare all’umore, alla personalità, all’outfit del giorno. Come un abito, una sciarpa, un paio di scarpe. Qualcosa che oggi suona come banale, ma che trent’anni fa era il futuro, effetto implacabile e seduttivo della galoppante new wave.
Il 1983 è la data ufficiale del debutto di Swatch. Da lì a poco, il boom. L’orologio svizzero, nell’immaginario collettivo, si trasforma nel giro di qualche anno in un simpatico gingillo di qualità ma a buon mercato, rigorosamente di plastica, sicuramente di tendenza. Obbligatorio averne più d’uno: al second watch seguono il terzo, il quarto, il quinto… Collezionarli diventa un hobby per adolescenti e adulti dal mood casual.
La quantità di Swatch ideati, con disegni, fantasie e dettagli differenti, è impressionante. Ma ancor più incredibili sono i numeri della produzione: il 333 milionesimo pezzo è stato celebrato nel 2006.

Le parole-chiave della Hayek filosofia? Tecnologia, in primis. Nel senso che a rendere possibile il fenomeno è stata alla fine degli anni ‘70 l’introduzione del Delirium Tremens, il primo (costosissimo) modello supersottile, con le tre parti tradizionali integrate in un unico pezzo. Sfruttare questa straordinaria semplificazione, ricorrendo a materiali economici e a una produzione in serie, fu la prima, vera rivoluzione.
E poi, soprattutto, marketing, comunicazione, distribuzione. L’attenzione si sposta verso la cura del brand. Swatch si diffonde a macchia d’olio, cercando di avvicinarsi al pubblico, di essere a portata di mano e  di tasche, di costruirsi un’immagine riconoscibile e creativa.
Così, l’orologio camaleontico si adegua all’umore e al look, come pure alla filosofia del momento: mutano gli slogan, i claim, i concept. Lo Swatch va bene per lo yuppie in carriera, in tempi di carrierismo (Dont’ be too late, 1984), per il freak che difende il suo tempo libero, in tempi di new age o di recessione economica (You don’ t live in a nine-to-five world, 1991), per i globetrotter, durante il trionfo della globalizzazione (Shake the world, 2006), per i cibernauti negli anni dell’esplosione di internet e del virtuale (Swatch Internet Time, modello del 1998, divideva il giorno in 1000 parti chiamate beat, per un mondo senza fusi orari).

Ma la vera perla del ’98 fu quello spot-capolavoro che, recuperando la bellissima Breathe di Midge Ure, recitava così: “How Long is a Swatch Minute? Time is what you make of it”. Che sia un secolo o un solo respiro, ciò che conta è quel che fai del tuo tempo. Probabilmente lo slogan Swatch per eccellenza, valido sempre, ovunque, per chiunque: il senso della libertà e della massima flessibilità racchiusi in un piccolo oggetto di plastica, con cui segnare il trascorrere delle proprie giornate.
Oggi sono 12mila i punti vendita in tutto il mondo, tra piccoli store, flagship e monomarca, studiati con allestimenti dalla forte componente scenica. Swatch Group è intanto diventata una multinazionale con 24mila dipendenti, che include una ventina di marchi prestigiosi (Breguet, Blancpain, Omega, Longines, Tissot, Swatch), con un fatturato annuo stimato per il 2010 a quota 6 miliardi di franchi svizzeri.

Helga Marsala

www.swatch.com

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lunedì 4 luglio 2011

CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

L'arte della menzogna

Post n°228 pubblicato il 05 Luglio 2011 da BROWSERIK

sdeMentire è un’ arte ed è più difficile di quello che non si creda. Generalmente le persone sono convinte del contrario e pensano che sgamare una bugia ben architettata non sia semplice neanche con le più avanzate macchine della verità. Ma la tecnologia qui non c’entra: basta rovesciare il punto di vista.

Chi vuole scoprire se qualcuno sta mentendo deve smetterla di osservare il muscolo del sopracciglio per scorgere un minuscolo movimento rivelatore, e passare invece al contrattacco ponendo all’interlocutore semplici, diaboliche domande. Il vademecum del perfetto inquisitore è riassunto su New Scientist, in un articolo che fa il punto sui più recenti studi di psicologia sull’argomento menzogna.

Il succo è questo: “ È impossibile rendere più nervoso chi mente, ma è semplice porre quelle domande a cui è più difficile rispondere se si sta mentendo”, dice Aldert Vrij, psicologo dell’ università di Portsmouth che da tempo sta cercando di capire perché, di solito, le persone sono facili da ingannare.

Un modo? Chiedere al sospettato di raccontare la medesima storia sospetta al contrario. Questo è un compito decisamente più difficile se ci si è inventati un avvenimento che non se bisogna semplicemente ricordarlo. Ed eccone un altro: chiedere all’imputato di disegnare la scena: chi mente non pensa ai dettagli spaziali, di solito. Un’altra strategia è indagare sui dettagli temporali e chiedere più volte l’ esatta cronologia, magari creando appositamente qualche tranello.

Nel caso si tratti di capire cosa pensa realmente una persona, invece, la si può costringere a difendere la propria idea e poi chiederle di fingere di prendere la posizione opposta. Il motivo si questo gioco di ruolo è che, di solito, si difende meglio l’idea di cui si è realmente convinti. C’è poi un altro mito da sfatare, quello secondo cui i bugiardi guardano fisso negli occhi dei loro interlocutori. Chiedete loro di farlo esplicitamente e si tradiranno, fornendo più indizi verbali e non verbali. Questo accadrebbe perché mentire e concentrarsi su un punto fisso sono due lavori piuttosto faticosi per il cervello.

Più elaborata la tecnica Sue, acronimo di Strategic use of evidence, che consiste nel non rivelare subito tutto quello che si sa circa un fatto al sospetto bugiardo. Scoprire le proprie carte solo in un secondo momento fa sentire il bugiardo in difetto, e lo porta poi a rivelare più di quanto non vorrebbe. È così, più o meno, che la polizia svedese ha incastrato l’assassino di una donna, Nancy Tavsan, nel 2009. In effetti, si è visto che chi la mette in pratica la Sue scopre l’85% di bugie in più di chi non se ne serve.

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Google+: privacy a prova di tardivo digitale - Wired.it

Google+: privacy a prova di tardivo digitale

Dov'è la mia bacheca? Che cosa sono le cerchie? Come posso entrarci? Wired.it ha provato il nuovo social network di BigG. Ecco cosa ne pensiamo

04 luglio 2011 di Martina Pennisi

google+

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Dov'è la bacheca? Dopo un'oretta a girovagare fra le funzioni di Google+ è il quesito che rimane senza risposta. Doverosa premessa: i riferimenti a Facebook nel testare la nuova creatura di BigG sono inevitabili. Lo scopo di Plus è quello di attirare l'armata dei 700 milioni di feisbucchiani e portarla sulle sue pagine. Per ora lo stratagemma degli inviti sembra aver funzionato a dovere, la curiosità è tanta e chi non ha ancora ricevuto l'agognata conferma non fa altro che saltare da un sito all'altro alla ricerca di un'escamotage per entrare nel nuovo mondo ( qui il nostro).

Una volta dentro la sensazione è un po' quella di chi passa da Windows a Mac: vai cercando i comandi familiari, anche perché la grafica per tutto è studiata tranne che per differenziarsi da Facebook. Impostato l'italiano come lingua principale (nome, impostazioni account, lingua), la base per la navigazione è la pagina Stream, l'equivalente della Home. La differenza con Facebook sta nella possibilità di selezionare le  Cerchie di contatti con i quali condividere lo status/la foto/il video/il link/la posizione. Una gestione, dunque, più oculata del contenuto messo alla mercé della Rete. La sezione Cerchie ha una pagina a sé ed è di facile utilizzo: inserendo i contatti nell'uno o nell'altro gruppo si fa la divisione delle proprie conoscenze. Tanto per fare un esempio pratico, lo status " finta febbre per stare a casa da lavoro e guardare Beautiful" lo si condivide con familiari, amici, compagni del liceo, compagni di calcetto e non con i colleghi (ma che differenza c'è con le liste di Facebook?). Fra le opzioni anche Following: ovvero le persone di cui non vuoi perdere gli status, Twitter docet. Le Cerchie per Google+ sono una costante: non esistono gli amici del tal contatto, ma i contatti all'interno delle sue Cerchie e, come in Facebook, le conoscenze in comune con il profilo che stai visitando. E' possibile anche sapere in quale cerchia ti ha inserito un amico, con la conseguente consapevolezza che ti escluda da alcuni dei suoi aggiornamenti, diversamente da quanto si possa fare in Facebook. Le reazioni a quanto scrivono e condividono gli altri sono identiche a quelle del fratello maggiore targato Zuckerberg: tasto +1 (Mi piace), Commenta e Condividi. Come dicevamo in apertura , non è possibile scrivere sul profilo - la bacheca - dei propri contatti. Come nel caso di Twitter, la pagina personale di ogni iscritto coincide con l' elenco dei suoi aggiornamenti. Per fare capolino in casa altrui, si può utilizzare la citazione: @nome e finisci anche sul suo profilo. Le notifiche sono del tutto familiari, iconcina rossa in alto a destra. Attraverso la pagina Foto si accede in un colpo solo a tutti gli album dei contatti.

Un appunto: essendo pensato per stare all'interno del resto dell'universo Google, ci si perde un po',  passando da una pagina all'altra.

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Skype sbarca su Facebook? - Wired.it

03 luglio 2011

Skype sbarca su Facebook?

Il black out di Skype

"Skype si blocca, panico in rete. Migliaia di utenti costretti a parlare di persona."

 

  • Il black out di Skype

    Il black out di Skype

    "Skype si blocca, panico in rete. Migliaia di utenti costretti a parlare di persona."

Il numero uno di Facebook Mark Zuckerberg ha affermato che questa settimana succederà qualcosa di incredibile per la sua gallina dalle uova d'oro. In realtà non ha dato altre indicazioni degne di note, ma le voci sono iniziate girare per tutta la Rete. E si è fatto il nome di Skype. Pare, dunque, che la tanto annunciata novità sia un sistema di videochat basato su Skype, accessibile direttamente dal social network.

Sarebbe davvero un bel colpo per Facebook, ma anche per Microsoft, che ha da poco acquistato il servizio VoIP, rappresenterebbe una mossa strategica. Skype, infatti, sta per approdare su iPad, del concorrente Apple, e se tutto fosse confermato adesso metterebbe le mani anche sul social network più famoso al mondo. Non è chiaro come Microsoft potrebbe capitalizzare questo doppio sbarco sulle piattaforme nemiche, ma già il fatto di renderle dipendenti da un proprio servizio è una notizia che renderà allegri gli investitori.

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