domenica 27 marzo 2011

Full metal laptop, pc estremi a confronto - Wired.it

Full metal laptop, pc estremi a confronto

Bagnati, insabbiati, presi a calci: non hanno mai smesso di funzionare. Sono i notebook rugged, i più duri in circolazione. Ma qual è il migliore?

25 marzo 2011 di Davide Cerruto

Getac V200

 

  • Getac V200

    Getac V200

Li abbiamo bagnati, insabbiati, presi a calci, torturati e non hanno mai emesso un lamento. Stoici, sono i notebook rugged, i computer da outdoor più avanzati al mondo, macchine da battaglia che lavorano di fianco all'uomo nei cantieri, sulle piattaforme petrolifere, sui carrarmati.

Figuriamoci se temono un'utente disgraziato come me. O no?

Getac V200 - Scelto da Wired
Soldato Getac a rapporto, signore! Getac V200 è forse il notebook rugged convertibile più evoluto in circolazione - mezzo tablet, mezzo laptop - con case in lega di magnesio e disco fisso rimovibile. Sotto la sua scorza durissima - resistente all'acqua, alla polvere e alle cadute - batte un processore top di gamma Intel® Core™ i7 vPro. L'aspetto è marziale, e non potrebbe essere altrimenti per un laptop tattico utilizzato soprattutto dai militari. Ma proprio per questo l'estetica da "mezzo corazzato" è sensata e denota stile.  > Vai al test


Panasonic Toughbook CF-31
Da chiuso il Toughbook CF-31 si presenta come una valigetta high-tech dall'aspetto impenetrabile. Una volta aperto, ogni cm di metallo, guarnizione e presa sigillata confermano quello che ho intuito vedendolo da fuori: questo computer è addestrato a tutto. Anche ai calci e alle cadute dalla scrivania. Lo posso garantire perché l'ho scrupolosamente preso a pedate e scaraventato a terra, e il telaio in lega di magnesio ha assorbito con eleganza i colpi più rovinosi.  > Vai al test


General Dynamics GD8000
A dire il vero non si piega nemmeno: Itronix GD8000 di General Dynamics è costruito con elevati requisiti di resistenza, dall'acqua alla polvere, un portatile corazzato tutto "casa e cantiere", essenziale nelle forme e nei contenuti. Appena ne entro in possesso lo lancio a terra d'istinto, giusto per scaldarmi, per un volo di circa un metro. L'impatto della lega di magnesio sul pavimento produce un rumore sordo ma il laptop è sano come un pesce. In compenso una piastrella si è crepata (Don't try this at home!). > Vai al test

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Il futuro del nucleare sono le centrali al torio? - Wired.it

Il futuro del nucleare sono le centrali al torio?

Grande disponibilità di materia prima, basso costo, grande energia con scorie molto meno pericolose. Allora dov'è il trucco?

26 marzo 2011 di Emanuele Perugini

torio

torio

 

  • torio

    torio

    torio

Potrebbe essere nel torio la risposta ai problemi di energia del futuro. La tecnologia legata a questo particolare minerale potrebbe infatti rappresentare il giusto compromesso di sicurezza e di rispetto delle problematiche ambientali che riuscirebbe a convincere anche il più acerrimo ambientalista. Usare torio al posto dell’uranio arricchito per far funzionare centrali nucleari è infatti una tecnologia già ampiamente utilizzata, conosciuta, studiata e anche collaudata che presenta una serie di vantaggi economici e anche ambientali. Ma anche di svantaggi. 

Nel mondo esistono abbondanti riserve di torio e il costo del combustibile sarebbe davvero molto basso. Inoltre le riserve di questo materiale sono presenti un po’ ovunque e questo metterebbe al riparo da eventuali strozzature di mercato. I reattori alimentati a torio poi produrrebbero una serie di scorie che non solo potrebbero essere riutilizzate per alimentare altri reattori, ma sarebbero anche molto meno pericolose di quelle prodotte da reattori ad uranio dell’ordine di diverse potenze in meno. Eppure nonostante tutti questi apparenti vantaggi solo pochi paesi hanno sviluppato questa speciale filiera nucleare: l’I ndia, ora la Cina e, in un certo senso anche il Canada. ” Il motivo per il quale questo tipo di tecnologia non è stato sviluppato – spiega Ezio Puppin, presidente del Consorzio Interuniversitario scienze fisiche della materia (Cnism) -  sono essenzialmente legati alla storia del nucleare, che ai primordi è stato sviluppato per produrre plutonio e altro materiale utile alla fabbricazione di testate nucleari".

Ma ci sono anche altri motivi, anche se non si tratta di problemi insormontabili. Si tratta di problemi essenzialmente legati ai costi di gestione più elevati del ciclo del combustibile nucleare. “ Se infatti per alimentare un reattore tradizionale – spiega Giuseppe Forasassi, presidente del Consorzio interuniversitario di ingegneria nucleare (Cirten) e docente all'università di Pisa – basta semplicemente raffinare un po’ il minerale estratto dalla miniera, per il torio occorre associare un impianto chimico al reattore per permettere di avere combustibile che sia in grado di sostenere la reazione di fissione”. Il problema infatti è che il torio, non è un elemento fissile. Non è radioattivo e cioè non libera dal suo nucleo neutroni che poi vanno a spaccare nuclei di altri atomi. Detta in maniera più semplice il torio da solo non brucia, e nemmeno si accende. Per la verità neanche l’uranio naturale, l’ uranio 238 si accende, ma nei reattori tradizionali si usano miscele di uranio parzialmente arricchito e cioè che contiene al suo interno un isotopo radioattivo dell’uranio naturale, l’ uranio 235, che invece è radioattivo e permette di sostenere la reazione a catena. Il problema dell’utilizzo delle centrali a torio nasce proprio da questa considerazione.

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CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

Internet sempre più indipendente dall'uomo

Post n°162 pubblicato il 27 Marzo 2011 da BROWSERIK

mlkCerchi “ automobili nuove” su Google. Prova a immaginare se i criteri dei risultati tenessero conto, per esempio, delle tue scelte nelle ricerche precedenti (magari a proposito di inquinamento, bilancio famigliare o colori), della posizione GPS del tuo smartphone che ti indica le concessionarie più vicine (con relativi check-in registrati su Foursquare), e dei commenti che hai lasciato su Facebook sotto la foto della macchina nuova di un tuo amico.

Sarebbe una semplice ricerca su Internet, oppure diventerebbe un’esperienza qualitativamente differente, più evoluta?

C’è chi pensa che la declinazione futura della Rete dovrà finire per assomigliare in qualche modo a un assistente personale, capace di conoscerci e assecondarci mentre cambiamo idea. Ecco il Web 3.0. Ma funzionerà ?

C’era una volta Internet.

Stava in un computer della biblioteca all’Università. Se avessi saputo che sarebbe diventato così importante, magari avrei scritto sul diario l’indirizzo del primo sito che visitai. Invece niente, chissà cos’era.

Si apriva un’epoca, ma non ce lo avevano ancora spiegato. Però ricordo bene un pomeriggio, intorno al ’95 o ‘96, in cui una mia compagna di corso mi mostrò come farsi un indirizzo e-mail gratis su Hotmail. Sembrò subito una cosa molto utile, tanto che cominciammo a controllare la posta addirittura quasi tutti i giorni.

Ok, va bene, ora non tireremo fuori anche la nostalgia dei modem a 56k, ma quando leggo titoli come The Internet is over mi domando quanto sia legittimo decidere di arrendersi e sentirsi finalmente “fuori tempo”.

L’inviato del Guardian al SXSW 2011 Oliver Burkeman, nel bel mezzo del festival di Austin, realizza che sono crollati gli ultimi confini tra la vita reale e la vita on-line. Diamo per scontato di trovare qualsiasi cosa con Google e vediamo i nostri amici su Skype, per non parlare del business, diventato sempre più un’accozzaglia di "design thinking" e "content strategy management". Noi, con i nostri laptop, Kindle, iPad, iPhone e cellulari “always-on”, viviamo con un perenne sottofondo tecnologico ormai inderogabile.

Da quella vecchia Rete statica, da leggere, al pervasivo mondo dei social network, passando per l’interattivo Web 2.0, la trasformazione è stata compiuta non senza sforzi: aggiornare blog, caricare video e foto, creare feed, aggregare feed, taggare, commentare, cinguettare su Twitter, correggere wiki e tutto il resto. Siamo sempre stati noi.

Quindi, quale sarà ora il prossimo passo?

Dal Texas suggeriscono che potrebbe anche essere senza di noi. Infatti, nonostante il Web 3.0 ancora non abbia una definizione ben chiara (ricordo tra parentesi che fino a qualche tempo fa doveva riguardare il Web semantico, ma ora pare meno in voga), al SXSW, durante un’intervista con Jason Calacanis
, Tim O’Reilly ha ribadito un’indicazione forte e netta: la prossima fase della Rete sarà guidata dai sensori intelligenti, dalle intelligenze automatiche, da tutti quei componenti che tramite noi e per noi, ma senza che noi ce ne dobbiamo troppo occupare, gestiscono una vasta serie di operazioni e aggiornamenti.

 

Dalle localizzazioni di Foursquare al nostro volto identificato biometricamente da Facebook, dalle tag RFID alle applicazioni che riconoscono quello che stiamo inquadrando nell’obiettivo e all’istante ci raccontano cos’è, ognuno di noi proietta una lunga ombra di informazioni incorporate, si lascia dietro una scia di dati per così dire spontanei.

Tutto ciò rappresenterebbe un inedito e nuovo capitolo nella storia del Web, il quale finirà per coincidere sempre più con il mondo stesso, così come lo conosciamo, che noi ne siamo consapevoli oppure no. Non è la prima volta che O’Reilly esprime queste posizioni, ma in qualche modo lo scenario del SXSW, così caratteristico, concentrato e iper-frenetico, è sembrato dare maggior forza all’imminenza delle sue parole, e da qui probabilmente il titolo ad effetto del Guardian.

Non vi saranno dunque più confini tra vita reale e vita on-line; bene, ora restano almeno due problemi: come riuscire a capitalizzare e rendere produttivi tutti questi dati in maniera sensata? E come fare in modo che le domande della prima trovino migliori risposte con la seconda?

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