Piscio e parole
30/07/2010 di Paolo Zardi
Il processo di crescita di ogni bambino passa attraverso l’apprendimento della gestione di ciò che esce dal proprio corpo.
Tipicamente, intorno ai due anni si rende conto che dal suo apparato urinario esce un liquido giallo che bagna mutande, pantaloni – mondo esterno in generale. Una volta constatato questo fenomeno, inizia un processo tutto sommato veloce che lo porta a monitorare la propria vescica, e a valutare la necessità di svuotarla nel modo migliore possibile: quindi non subito, non ovunque, e non in qualsiasi modo. Senza entrare troppo in dettaglio, un processo analogo accade con le feci.
Molto più complesso, invece, è l’apprendimento della gestione delle proprie parole – cioè dei suoni che la bocca emette per esprimere le proprie esigenze, il proprio punto di vista, le proprie richieste. Dei bambini, fa spesso sorridere l’assoluta schiettezza – cioè l’incapacità di valutare le conseguenze delle proprie parole. Tuttavia, non fa sempre sorridere: è nota a tutti una certa predisposizione dei bambini ad un’involontaria crudeltà: succede, ad esempio, che al passaggio di un nano loro gridano, ad alta voce, “guarda che buffo quell’uomo”. Ciò che manca durante l’infanzia è, forse, l’empatia che, secondo i più recenti studi delle scienze cognitivie, è ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi. Capire che le parole, così come l’urina e le feci, producono effetti sul mondo circostante è un passo importante e decisivo nel cammino per diventare adulti.
Il problema è che non sempre questo passo viene compiuto. Quando qualcuno esclama, ad alta voce, e con un certo d’orgoglio: “Io dico tutto quello che penso”, non posso non pensare a cosa succederebbe se la stessa incapacità di organizzare i propri output fosse esteso anche al resto: “Io piscio sempre ciò che produco” o, ancora più vividamente: “Sono un tipo onesto: cago tutto ciò che ho dentro”. La retorica della sincerità copre, in realtà, una visione della realtà incontinente, al limite dell’autismo. Il mondo sono io. O, al passo successivo dell’evoluzione, il mondo è lo specchio di me stesso. Manca il salto verso: vivo in un mondo di persone che pensano come me.
Uno dei temi che le scienze cognitive stanno affrontando recentemente riguarda l’evoluzione delle scimmie in ciò che noi ora chiamiamo “uomo”. Per molto tempo si è pensato che ciò che ha permesso il “salto” sia stato il linguaggio, che ha consentito ai nostri nonni scimmioni di interagire tra loro, e quindi di organizzarsi in modo più efficiente, sopperendo alle evidenti limitazioni fisiche. In realtà, sta prendendo sempre più piede l’idea che il linguaggio sia uno degli esiti dell’evoluzione, e non la causa: un esito paragonabile, per complessità, alla costruzione dei grattacieli.
Ciò che invece distinguerebbe gli uomini dalle scimmie, e che avrebbe permesso di potenziare le nostre limitate capacità, potrebbe essere non solo il riconoscere negli altri una certa somiglianza con noi stessi, e non solo il comprendere i sentimenti altrui – la base dell’empatia – ma il possedere una capacità unica al mondo, che è il comprendere, e quindi condividere, l’intenzione degli altri. Se una scimmia vede una persona che preme l’interruttore della luce, è possibile che, dopo aver creato il collegamento tra causa ed effetto, si giri a guardare la lampada che si è accesa; ciò che non farebbe mai una scimmia – e che invece gli esseri umani iniziano a fare intorno ai quattro mesi – è girarsi a guardare ciò che una persona sta guardando dopo essersi girata. Noi, in qualche modo, riusciamo non solo a valutare le azioni di chi ci circonda, ma anche ad immaginare i loro pensieri. Lo scambio di parole, o di segni in generale, ha senso solo se è presente questa condizione: in sua assenza, ci troveremmo di fronte ad individui che continuano a considerare solo una delle due direzioni lungo le quali avviene la comunicazione, un mondo di persone impegnate in tragici, ed inutili, monologhi.
Il sospetto che ho quando sento qualcuno dire “Io dico tutto quello che penso” (frase che viene sempre detta con un tono un po’ tronfio e supponente) è che nell’evoluzione individuale di questa persona sia mancato il passaggio indispensabile da scimmia a uomo; che manci, cioè, la capacità di riconoscere, nelle altre persone, delle intenzioni simili alle nostre, e quindi di valutare l’impatto del nostro “prodotto” sul mondo che ci circonda; che sia assente, o limitata, la caratteristica che ha consentito di creare una società organizzata, basata su relazioni sostenibili e strutturate: una società che sia qualcosa di più della mera somma di tanti omunculi autoreferenziali, autistici, ed incontinenti.
Una Risposta
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