lunedì 7 marzo 2011

Hereafter | Una storia noiosa

In parte perché il misticismo non è mai stato nelle corde di Eastwood (torniamo al punto a), in parte perché a questi temi è possibile attribuire un ruolo strumentale senza per questo deformare il film stesso (controprova: tentate qualcosa di simile col “Settimo sigillo”).
Forse certe reazioni disgustate scattano istintivamente, dettate – più che da un confronto con la materia del film – dalla convinzione che tutto ciò che riguarda l’aldilà sia paccottiglia pseudoreligiosa, già responsabile in passato di film scadenti. Sospendere l’incredulità in questo caso sembra in qualche modo più compromettente che in un film dell’orrore o di Bond.
Proviamo a eiliminare quelle scene. E’ chiaro che la narrazione non reggerebbe: potremmo a buon diritto ritenere la giornalista preda di un esaurimento e George un ciarlatano come quelli che il bambino incontra e scarta uno ad uno, con una lieve, disperata piega di delusione della bocca. No, deve esserci autenticità e deve esserci condivisione di quelle scene: dobbiamo “riconoscerle” come scene di aldilà, quindi – inevitabilmente – stereotipate. Su questo patto si regge la struttura del film. Ma non è un patto col diavolo.

L’esperienza della morte è, questo sì, un tema centrale. Per il bambino significa la perdita definitiva e irreparabile di una parte di sé (il gemello), per la giornalista è il germe di una profonda crisi personale e professionale, per George, il sensitivo, è una presenza costante e soffocante. Sono tre storie bloccate.
Il ruolo di narratore che George si trova suo malgrado (non “gift” ma “curse”) a dover interpretare – o a rifiutarsi di farlo, in una scena molto forte e decisamente non-stereotipata – è terapeutico. Il dialogo coi morti “compie” una storia, cura, lenisce, interpreta, scioglie. Non vediamo George parlare coi morti: lo vediamo parlare coi vivi. Con delicatezza, cura, con una partecipazione e un dolore sinceri e insostenibili, mettendosi in gioco personalmente. L’attenzione non è sul paranormale, ma sull’autenticamente umano.

C’è un altro narratore nel film: Charles Dickens. La sua presenza, ben documentata qui, non è marginale. Lo sceneggiatore ci dice solamente che Dickens si adatta bene al personaggio di George, sembra avere la giusta tonalità, ma questo non mi sembra sufficiente.
Come dicevo, Eastwood non è il tipo del citazionista cerebrale. Dickens, d’altra parte, è il narratore perfetto: le sue storie sono ricche di avventure e di drammi appassionanti, ma rotonde, piene. I suoi personaggi sono preda del destino, della storia, dell’ingiustizia sociale, a volte puramente del caso, ma la loro sorte – alla fine del libro – non è abbandonata alla speculazione del lettore. Per quel che ho letto, in un solo caso: il romanzo incompiuto “Edwin Drood” (il cui manoscritto George vede nella visita alla casa di Dickens) che non a caso è stato oggetto di infiniti tentativi di completamento, come se l’autore avesse voluto dimostrare di poter legare in eterno i posteri con l’invincibile incantesimo della sua prosa.

Menarini ha visto in questa presenza un omaggio alla tradizione del cinema americano, che nasce, con David W. Griffith, appunto sull’esempio del modello narrativo dickensiano. Credo che questa riflessione sulla propria poetica di narratore Eastwood la incarni nella vicenda stessa del film, nella risoluzione di quelle tre storie. La vicenda del bambino (decisamente dickensiana, tra l’altro) sembra liberarsi di un peso opprimente e paralizzante. La giornalista riesce a scrivere la propria storia ed è forse pronta a viverne una nuova insieme a George. George stesso, da narratore di storie altrui, scritte altrove e ormai immutabili, può finalmente iniziare a comporre la propria, libero dalla maledizione. Già la sogna, se la racconta. La vecchia talpa ha ben scavato: l’happy end coincide con una trasformazione da oggetti, vittime della storia a soggetti e autori.

l'ultima opera di Clint Eastwood

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