A proposito di Ai Weiwei
Si sviluppano gli addentellati della querelle Bonami-Paparoni attorno alla figura di Ai Weiwei. La figura del noto artista cinese, attualmente agli arresti, alimenta il dibattito attorno a se stesso. Le discussioni continuano con una riflessione di Marcello Faletra.
Ciò che colpisce in questa specie di “polemica” italiota, espressione del neofascismo mediatico in vigore, è la metamorfosi della funzione del “critico” che, nel caso di Bonami, è sempre più vicino al cane da guardia dell’avventura estetica neoliberista. È, in altre parole, la funzione della prevaricazione e del sospetto: dipingendo Ai Weiwei come un “dissidente, polemista, provocatore” (vedi il suo articolo) – così come oggi si dipingono i cosidetti “grillini” e tanti altri che non stanno al gioco mistificatorio della postpolitica – si creano le condizioni per far dire spontaneamente al lettore che in fin dei conti questo “artista” non è poi cosi “radicale” come ci si aspetterebbe. Ma qui – è bene dirlo – questa attesa è tutta costruita su un artefatto retorico: addossare a Weiwei la figura di ribelle e sovversivo per poi trarne le somme che non è così. E, dunque, trarne la conseguenza che ciò che Weiwei cerca non è altro che il successo sotto altre vesti: l’arresto ai domiciliari.
Insomma, un gioco giornalisticamente un poco sporco. Dal momento che Weiwei non si è mai definito “polemista” o “radicale”, semmai “artista” – se ha ancora un senso questa parola divenuta la maschera mediatica di buoni a nulla e ruffiani che vanno alle biennali, specchio di politici anch’essi buoni a nulla.
Che poi da questa parola ‘artista’ si fanno germogliare altri significati che in tempo di avanguardie gli si erano sostituite – “anartista” (Duchamp), “rivoluzionari” (Breton) ecc. – è proprio l’artefatto retorico su cui si regge l’articolo di Bonami. Certo, si potrebbe dire a questo punto che Ai Weiwei sta al capitalismo di Stato cinese come Francesco Bonami sta al capitalismo neoliberista occidentale.
Da questo punto di vista, è interessante osservare quanto l’arte non sia più la spiegazione di se stessa, ma di ideologie termidoriane che si nutrono come sciacalli della “morte delle ideologie” a seguito del crollo dell’Unione Sovietica.L’anticomunismo implicito nel rimprovero che Bonami fa a Weiwei per non essere sufficientemente “radicale” o “dissidente” rispetto al regime cinese è dello stesso tipo di quello che si potrebbe rivolgere a un “intellettuale” o “artista” o “critico” della sfera occidentale che non si oppone con sufficiente radicalità al totalitarismo economico neoliberista con le sue “guerre preventive” e la sua feroce politica mondialista.
Le prerogative che Bonami attribuisce a Weiwei servono a screditarlo di fronte alla politica della Cina rispetto alla questione del Tibet. Come se spettasse all’artista trovare soluzioni politiche che invece spettano alla politica, e – come altrove dice Badiou – alle azioni rivoluzionarie dal basso.
Insomma, con un articolo del genere Bonami non fa che ratificare quanto certa “critica” istituzionale – ma che di fatto è lo specchio del mercato dell’arte – sia diventata una funzione inutile nella misura in cui essa è solo l’involucro di ben altre idee, che sono le idee del mercato, che in fatto di arte è in mano agli States, presso cui Bonami gode di ottima stima.Viene il sospetto che l’attacco alle spalle di Bonami a Weiwei sia un tentativo (volontario o involontario, non importa) di creare dei sospetti verso gli artisti cinesi che si stanno imponendo a livello internazionale. Una variante della guerra economica in atto, se è vero che alcuni artisti americani non sono più “quotati” ma delirati.
Marcello Faletra
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