venerdì 1 aprile 2011

CIBERNIX - Frustrazione ciibernetica

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Il PC manipola il cervello Post n°170 pubblicato il 02 Aprile 2011 da BROWSERIK Tag: computer, neuroscienze, scienze cognitive, tecnologia, web Che le nuove tecnologie consentano ormai di interfacciare il linguaggio del cervello con quello delle macchine, non è una novità. In passato abbiamo parlato di sedie a rotelle attivate dal pensiero, sintetizzatori vocali che traducono il linguaggio della mente, pianoforti che suonano senza essere toccati. Ma cosa accadrebbe se invertissimo il processo, se non fosse più il cervello a dare istruzioni a una macchina, ma una macchina a manipolare l’attività cerebrale? Provando a lasciare da parte i soliti croccanti scenari fantascientifici, ne abbiamo discusso direttamente con chi ci sta lavorando per davvero, Eilon Vaadia, docente di fisiologia alla Hebrew University of Jerusalem e direttore del Edmond and Lily Safra Center for Brain Sciences di Gerusalemme. Vaadia sarà presente in qualità di ospite il 4 e 5 aprile, al Brain Forum di Milano. Qui terrà un incontro intitolato New frontiers in brain-computer interfaces, durante il quale illustrerà la sua ricerca nell’ambito delle interfacce cervello-computer (Brain-Machine Interface), dei chip intracranici e del loro utilizzo per comprendere e riparare, attraverso stimolazioni mirate da parte della macchina, danni neurologici e patologie oggi incontrastabili come il Parkinson e la schizofrenia. Per iniziare, Eilon Vaadia, ci descriva in sintesi le sue recenti conquiste in fatto di tecnologie Brain-Machine Interface. “Quello che abbiamo fatto è stato registrare i segnali elettrici prodotti da molte cellule cerebrali e sviluppare algoritmi matematici che ci permettessero di interpretare questi segnali. Per farce ciò il cervello viene interfacciato con una macchina e, una volta creato questo ponte, è possibile insegnare al cervello come dare specifici comandi alla macchina. Non solo, è anche possibile modificare l’attività del cervello usando stimolazioni mirate e questo apre la strada al futuro utilizzo di tecnologie Bmi per applicazioni cliniche”. In che modo questi segnali cerebrali possono essere convertiti in dati computazionali? “Ogni singola cellula cerebrale invia impulsi elettrici che possono essere tradotti in segnali binari. Esistono diversi tipi di segnale: puoi usare l’Eeg, che è l’opzione meno invasiva e non necessita di interventi chirurgici, ma fornisce informazioni molto meno dettagliate rispetto all’innesto di chip intracranici a microarray (in futuro, invece, potremo sfruttare le nanotecnologie). Comunque, una volta che abbiamo ottenuto questi segnali, poi possiamo usarli per leggere il linguaggio computazionale del cervello. Se il cervello, per esempio, vuole muovere un braccio, la macchina può leggere questi segnali e tradurli in azione: il che può voler dire muovere un cursore su uno schermo o controllare un braccio robotico. In futuro, tuttavia, ci si potrà spingere parecchio oltre e interagire davvero con il cervello”. Come? “Per esempio potremo riparare l’attività del cervello in caso di disturbi neurologici o psicotici, come il Parkinson o la sindrome locked in. Oppure, manipolare l’attività elettrica del cervello per insegnargli nuovi compiti. Per dire, se hai dei danni cerebrali che interessano le aree relative al linguaggio, sarà possibile stimolare aree alternative del cervello per ristabilire questo tipo di funzione. Ma attenzione, tutto ciò ancora non è possibile, è solo uno dei nostri obiettivi a lungo raggio”. In che modo questo tipo di tecnologia può aiutare le persone disabili a recuperare una qualche mobilità? “Questa tecnologia oggi permette di registrare l’attività cranica di un paziente paralitico e aiutarlo a comandare dispositivi semplici, per esempio: accendere una tv, guidare una sedia a rotelle o in particolare, utilizzare macchine da scrivere azionate dal cervello. In futuro sarà possibile controllare azioni di tipo più complesso. Ma per farlo è necessario migliorare le tecniche chirurgiche con cui gli elettrodi vengono impiantati all’interno del cranio e la tecnologia degli elettrodi stessi”. Un esempio pratico è l’esperimento che avete condotto su una scimmia, inducendola a nutrirsi comandando un braccio robotico attraverso il cervello... “Esatto, a esser precisi l’esperimento è stato condotto dal professor Andrew Schwartz dell’Università di Pittsburgh, con cui abbiamo collaborato. Nell’esperimento di Schwartz abbiamo insegnato a una scimmia a procurarsi cibo attivando un braccio meccaninco col pensiero, nel mio esperimento invece la scimmia si interfacciava direttamente con un computer. Questo dimostra che possiamo insegnare al cervello di una scimmia a effettuare nuovi compiti. Utilizzando il nostro computer il cervello della scimmia impara a comprendere il computer e man mano invia ad esso istruzioni più calibrate. Noi ci limitiamo a stabilire un contatto, connettendo gli elettrodi impiantati al computer, non diciamo alla scimmia cosa fare. Di fatto, la scimmia e il computer imparano a comunicare tra di loro! In questa ottica, nell’esperimento il cervello della scimmia ha imparato a utilizzare il computer come un nuovo arto. Poi esiste il problema del feedback, che è quello su cui mi sto concentrando ora: c’è possibilità di stimolare con precisione le cellule del cervello naturalmente dedicate a un movimento, per dare al cervello della scimmia quel feedback che tutti noi abbiamo quando muoviamo un braccio o tocchiamo un oggetto”. Lei ha parlato di microarray intracranici. Crede che un approccio invasivo di questo tipo potrà essere utilizzato anche sugli umani? E se sì, quando? “Si è fatto qualcosa negli Stati Uniti, ma io sono convinto che su questo aspetto non dobbiamo correre. Abbiamo bisogno di maggiore conoscenza, di tecnologie e tecniche migliori. Inoltre esiste una questione etica, è importante che la gente capisca cosa stiamo facendo e in che modo potrà migliorare significativamente la qualità della vita. Scienziati, politici, cittadini, dobbiamo educare chiunque a capire che non è nostra intenzione utilizzare gli umani come cavie da laboratorio. È fondamentale che si faccia un’opera di sensibilizzazione su cosa sia la Brain Science”. “ Migliorare significativamente la qualità della vita”. Cosa intende di preciso? In che modo, insomma, questo tipo di tecnologia cambierà la vita dell’uomo in futuro? “Io credo che, se introdotta con successo, questa tecnologia rivoluzionerà la medicina, permettendo alla gente di vivere fino a 100 anni senza gli acciacchi della vecchiaia. La gente non avrà schizofrenia, non saranno paralizzati dopo l’infarto, non ci sarà Parkinson, e potrà pensare e agire molto più facilmente. Se poi vogliamo spingerci ancora più avanti nel futuro si potrebbero raggiungere picchi estremi. Lei immagini soltanto che mio padre, se fosse ancora in vita, non crederebbe mai che un iPhone potrebbe esistere. Le cose che saremo in grado di fare con il cervello non sono prevedibili ora, siamo solo agli inizi delle interfacce cervello-macchina. Potremmo migliorare le possibilità del cervello, guadagnare nuove abilità etc. Ma dobbiamo stare molto molto attenti, una cosa deve rimanere chiara e ferma”. Quale? “Lei ha visto il film con Bruce Willis, Surrogates? Ecco, noi non vogliamo surrogati. Ma perché ciò non avvenga, è importante prima rendere partecipe la comunità e sensibilizzarla alla questione”.

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