Google, la ricerca personalizzata serve a poco
Il motore usa la navigazione degli utenti per aiutarli a trovare informazioni. Ci riesce? Secondo una ricerca, no
12 aprile 2011 di Martina Saporiti
Pagina successivaI motori di ricerca sono come segugi: quando un utente cerca un’ informazione in Rete, lo pedinano passo dopo passo tenendo traccia del suo passaggio. Lo fa anche Google, che usa questi pedinamenti virtuali per ricostruire i profili dei suoi utilizzatori. A che scopo? Quello dichiarato riguarda il miglioramento delle performance del motore di ricerca: in questo modo, dice Mountain View, facilitiamo il lavoro dell’utente, che sfruttando la cosiddetta ricerca personalizzata riesce più velocemente a trovare le informazioni desiderate. Ma gli utenti meno ingenui sanno bene che c’è anche dell’altro. L'altro scopo è quello di aiutare le aziende a programmare le proprie inserzioni pubblicitarie sulla base dei profili dei singoli utenti.
In uno studio pubblicato su First Monday, rivista open access sul mondo della Rete, Martin Feuz e Matthew Fuller del Centre for Cultural Studies dell’ Università di Londra, in Gran Bretagna, e Felix Stalder, ricercatore di culture digitali e teorie della rete alla Zurich University of the Arts (Svizzera), hanno testato l’ efficienza della ricerca personalizzata di Google, scoprendo che non sempre i motori raccontano la verità.
Per prima cosa, i ricercatori hanno creato tre account fittizi, usando i nomi dei filosofi Immanuel Kant, Friedrich Nietzsche e Michel Foucault. Con questi pseudonimi, hanno eseguito una serie di ricerche su Google in modo da permettergli di creare il profilo di ognuno. Per scoprire se grazie a questo profilo personalizzato i filosofi riuscissero a districarsi meglio nel complesso mondo delle informazioni contenute in rete, i ricercatori hanno eseguito nuove ricerche utilizzando come parole chiave alcuni termini associati ai loro interessi comuni, altri contenute in libri, altri ancora ricavati dal sito di social-bookmarking Delicious.
Cosa è uscito fuori? A un’analisi frettolosa, i risultati visualizzati dai filosofi sembravano molto diversi da quelli collezionati da un utente anonimo (cioè senza un account registrato su Google) che avesse usato le stesse parole chiave. Precisamente, tra i primi 10 risultati visualizzati, almeno 6 non coincidevano. Ma guardando con attenzione, la ricerca personalizzata non aggiungeva informazioni rilevanti: il 37% dei risultati collezionati dai filosofi, infatti, riguardava solo dei link spostati dalla seconda alla prima pagina; il 13% proveniva dai primi 1000 link visualizzati. La sorpresa dei ricercatori, poi, è stata massima quando hanno scoperto che spesso da Google uscivano risultati personalizzati anche se non c’era alcuna relazione specifica tra la ricerca e la storia Web dell’utente.
È come se Google usasse le informazioni dei suoi utenti per inserirli in categorie demografiche e indirizzarli verso i contenuti più coerenti ai loro profili. Un modo soprattutto per consentire alle industrie di fare soldi con la pubblicità.
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