ROMA - Individuare una griglia teorica utile per sfruttare le potenzialità offerte da ciascun mezzo. Evitare che le tecnologie si dispongano secondo un modello evolutivo (la nuova soppianta la vecchia) e che i singoli individui vengano relegati al ruolo di utenti passivi. Erano questi i principali obiettivi della ricerca di Marshall McLuhan, lo studioso canadese dei media di cui si torna a parlare in occasione del centenario della nascita. Se McLuhan con le sue indagini ha rivoluzionato le indagini sui meccanismi della comunicazione e sugli effetti dell’innovazione, chi oggi indaga sul presente e immagina gli scenari futuri con la medesima capacità di battere sentieri inesplorati? Sono molti i nuovi McLuhan in attività, in gran parte lavorano oltre l’Atlantico o in Asia, e alcune loro nuove opere sono appena approdate in Italia.
Ha in tasca il medesimo passaporto di McLuhan il brillante Don Tapscott, autore di «Net generation» (Franco Angeli, 316 pagine, 39 euro) dove si lascia spazio alle modalità con cui i «nativi digitali» si rapportano con il mondo e tra loro. Chi sono gli esponenti della «net generation», nati e cresciuti in epoca di rivoluzione internet compiuta? Per capirlo senza pregiudizi occorre leggere il saggio di Paolo Ferri intitolato, appunto, «Nativi digitali» (Bruno Mondadori, 211 pagine, 18 euro) dove si chiarisce che questi ragazzi e ragazze usano gli schermi interattivi in pratica sin dall’infanzia e ritengono il web il principale strumento di reperimento e gestione delle informazioni. «Si tratta – precisa Ferri – della prima generazione veramente hitech, che conosce e pensa in maniera differente rispetto ai fratelli maggiori. Se per noi imparare significava leggere-studiare-riflettere, per i bambini cresciuti con i videogames vuol dire innanzitutto risolvere i problemi in maniera attiva. In altre parole vedono sempre e comunque la risoluzione di compiti cognitivi come un problema di natura pragmatica».
Quali rischi nasconde questo mutamento epocale? In primo luogo la caduta delle gerarchie e dell’attendibilità dei saperi. «Il continuo ricorso a internet – precisa Ferri – tende ad abbassare la percezione critica degli utenti. E così spesso il web diventa la fonte a prescindere dall’autorevolezza del sito e di chi scrive. Se vince il modello Wikipedia crolla l’importanza dell’autore. O, come ha sottolineato l’antropologa Susan Blum sul New York Times, se per lo studente non è decisivo essere unico, allora va bene usare senza filtri le parole degli altri per ottenere consensi e guadagnare socialità». Opportunità sino ad oggi sconosciute vengono nel contempo garantite da un utilizzo intelligente della rete a giudizio dello studioso, docente all’università Bicocca: «Se nativi e immigranti digitali riusciranno davvero a camminare insieme per i prossimi trent’anni – conclude – forse riusciremo ad apprendere un dialogo interculturale e un modo di interagire con il diverso che noi occidentali, in fondo, non abbiamo mai appreso davvero».I nuovi McLuhan non si occupano solo di contenuti, le loro indagini si concentrano anche sull’evoluzione degli oggetti. Donald Arthur Norman, ad esempio, dedica gran parte del suo «Vivere con la complessità» (Pearson, 266 pagine, 16 euro) a spiegare i motivi alla base della diffusione degli e-readers e degli smartphone. Ingegnere, psicologo, esperto di scienze cognitive, a lungo al vertice della Apple, Norman è certo che in un futuro non troppo lontano la centralità del computer è destinata a cadere. In Cina e in Giappone, prova con la forza delle cifre, i pc vengono impiegati in misura inferiore rispetto agli smarthpone. «Le funzioni del computer – profetizza Norman – verranno sempre più inglobate dentro altri dispositivi, le cosiddette tavolette. Userà il pc in senso classico solo chi, come gli scrittori o gli ingegneri, non potrà fare a meno dello schermo e della tastiera. Per tutti gli altri a breve non sarà più così necessario».
Per capire le ricadute dell’innovazione nell’ambito del giornalismo il libro di riferimento è «Eretici digitali» di Massimo Russo e Vittorio Zambardino (Apogeo, 241 pagine, 15 euro), un saggio dove si chiariscono opportunità e rischi di un mestiere antico che sta profondamente cambiando pelle. Nei paesi che prima di altri hanno visto gli effetti del mutamento tecnologico come gli Usa o il Regno Unito stanno nascendo nuove professionalità (i social media editor) incaricate di promuovere i contenuti dei quotidiani all’interno dei grandi social network e di monitorare ciò che vi accade per cogliere tutti i temi che possano diventare occasione di notizia da parte del giornale. Il futuro, dunque, è nell’integrazione. Difficile, del resto, per i media tradizionali proseguire sulle antiche strade: nel 2008 il New York Times ha chiuso i conti con una perdita di ben 57 milioni di dollari contro un profitto di 208 l’anno precedente. Il matrimonio tra la carta e la rete ha premiato nel corso del 2010 la storica testata americana: ora la signora in grigio, come viene ribattezzata per la sua austerità anche grafica, risulta in testa tra i quotidiani e al quinto posto nella classifica dell’audience sul web tra i siti di informazione statunitensi. Con ovvie ricadute positive anche sui bilanci.
Social Media Editor , la nuova professionalità
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